Il 7.10 è una data che evoca fantasmi e tenebre. Per esempio è la data di nascita di Putin (era il 1952), ed anche il giorno in cui si regalò l'assassinio di Anna Stepanovna Politkovskaja, uccisa nel pianerottolo di casa a Mosca, proprio nel giorno del compleanno di Putin. Particolarmente attiva sul fronte dei diritti umani, Politkovskaja è nota principalmente per i suoi reportage sulla seconda guerra cecena e per le sue aspre critiche contro le forze armate e i governi russi sotto la presidenza di Vladimir Putin, accusati del mancato rispetto dei diritti civili e dello stato di diritto. Il 7 ottobre 2006 e' stata assassinata a Mosca mentre stava rincasando.

Ma qui ricordiamo il 7 ottobre 2023. Il frutto, premeditato, dell'attacco ad Israele il 7.10 non è stato solo quello di trucidare quanti più ebrei fosse stato possibile e rapirne a centinaia, ma anche e forse soprattutto sfruttare la logica reazione a vantaggio dell'odio verso gli ebrei, nella più grande reminiscenza antiebraica/antisemita che la storia ricorda da dopo  Hitler. Per questo anche i palestinesi sono rimasti ostaggio di questa macchina crudele di Hamas, organizzazione terroristica alimentata dalla dittatura Islamica Iraniana.

E' interessante verificare come anche in questi giorni Israele è impegnata su 7 fronti, circondata da nemici che la vogliono distruggere, come successo già diverse volte nella storai millenaria di questa nazione.
Tornano in mente le parole di:

  • Zaccaria 14 - 2 Il Signore radunerà tutte le genti contro Gerusalemme per la battaglia; la città sarà presa, le case saccheggiate, le donne violate, una metà della cittadinanza partirà per l'esilio, ma il resto del popolo non sarà strappato dalla città. 3 Il Signore uscirà e combatterà contro quelle nazioni, come quando combattè nel giorno della battaglia.
  • Salmo 118: 10 Tutte le nazioni m'avevano circondato; nel nome del SIGNORE, eccole da me sconfitte. 11 M'avevano circondato, sì, m'avevano accerchiato; nel nome del SIGNORE, eccole da me sconfitte. 12 M'avevano circondato come api,
    ma sono state spente come fuoco di spine; nel nome del SIGNORE io le ho sconfitte. 13 Tu mi avevi spinto con violenza per farmi cadere, ma il SIGNORE mi ha soccorso. 14 Il SIGNORE è la mia forza e il mio cantico, egli è stato la mia salvezza.


7 ottobre - Attacco all'occidente - L'antisemitismo nel 2024 - L'audio del Convegno organizzato dall'associazione: "7 ottobre". Registrato da Radio Radicale.

Israele orologio di Dio? Vedi:

Note:
Pogrom = Sommossa sanguinosa contro gli Ebrei, considerati capri espiatori del malcontento popolare (spec. in riferimento alle repressioni antisemite avvenute, talvolta col consenso delle autorità, in Russia tra la fine del sec. XIX e l'inizio del XX).
Sionismo = Il sionismo è un'ideologia politica il cui fine è l'affermazione del diritto alla autodeterminazione del popolo ebraico e il supporto a uno Stato ebraico in quella regione che, dal Tanakh e dalla Bibbia, è definita: "Terra di Israele". Il sionismo emerse alla fine del XIX secolo nell'Europa centrale e orientale come effetto della Haskalah (illuminismo ebraico) e in reazione all'antisemitismo, inserendosi nel più vasto fenomeno del nazionalismo moderno. Il movimento tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo si sviluppò in varie forme, tra le quali il sionismo socialista, quello religioso, quello revisionista e quello di ispirazione liberale dei Sionisti Generali. Esso favorì a partire dalla fine del XIX secolo flussi migratori verso la Palestina, prima sotto l’impero ottomano e dopo la Prima guerra mondiale affidata all’amministrazione britannica dalla Società delle Nazioni, che rafforzarono la presenza ebraica nella regione e contribuirono a formare un Nuovo Yishuv. Il sostegno al sionismo crebbe in particolare nel secondo dopoguerra, successivamente all'Olocausto, e portò allo scadere del mandato britannico della Palestina, alla Dichiarazione d'indipendenza israeliana e alla nascita dello Stato di Israele nel 1948. I conflitti con il mondo arabo e l'esodo palestinese del 1948 provocarono il rafforzamento dell'antisionismo. 

 



 

Tipo di raccolta

alex

Testimonianza dell'ex ostaggio Ilana Gritzewsky, che ha appena parlato davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
“Mi hanno afferrato per i capelli, mi hanno colpito allo stomaco, facendomi perdere il respiro. Mi hanno trascinato sul pavimento, sollevato e sbattuto contro il muro.
 
Mi hanno puntato contro delle pistole, mi hanno picchiata, hanno cercato di filmarmi con il mio telefono. Ho alzato le mani, ho detto loro che ero messicana, li ho supplicati di non farmi del male, di non violentarmi, di non spararmi, di lasciarmi andare. L'unica cosa a cui riuscivo a pensare era che la mia famiglia mi avrebbe vista morire in quel modo.
I terroristi mi hanno picchiata, umiliata, palpeggiata dappertutto, mi hanno buttata su una moto e mi hanno portata a Gaza.
Durante il viaggio verso Gaza, quando hanno iniziato a toccarmi e ad abusare sessualmente di me, sono svenuta fisicamente e mentalmente, non ce la facevo più. Credo che il mio corpo abbia preferito spegnersi. Hanno continuato a picchiarmi perché, per loro, ero un trofeo.
Mi sono svegliata in una casa in rovina, sdraiata mezza nuda su delle pietre, circondata dai terroristi di Hamas. Ho dovuto supplicarli di non violentarmi, dicendo loro che avevo il ciclo. All'inizio non capivano se avessi il ciclo o fossi incinta, ma comunque questo li ha convinti a lasciarmi in pace. Mi hanno gettato addosso un hijab e un vestito e mi hanno ordinato di vestirmi.
Non sapevo esattamente cosa fosse stato fatto al mio corpo in quei minuti persi in cui non ero cosciente. Ma la mia anima lo sapeva già: niente sarebbe più stato lo stesso.
Avevo la mascella fratturata, il bacino rotto, danni all'udito causati dalle esplosioni e una gamba ustionata. In 55 giorni di prigionia ho perso 12 chili. Non mi hanno dato nessuna medicina, nessun medico è venuto a visitarmi, anche se avevo detto loro che soffrivo di colite e anemia.
 
I terroristi decidevano tutto: quando potevamo parlare, quando potevamo andare in bagno, quando potevamo alzarci. Ci svegliavano nel cuore della notte per sottoporci a interrogatori crudeli.
Dal momento in cui sono stato catturato, le guardie sono state sempre con me. Non indossavano uniformi di Hamas. Erano vestiti come civili. Mi hanno detto che uno di loro era un insegnante di matematica e l'altro un avvocato.
Per 50 giorni si sono assicurati che non potessi scappare. Ci dicevano continuamente che saremmo stati ostaggi per cinque, o addirittura dieci anni.
Quando era ora di mangiare, portavano un sacco con del cibo nella loro stanza. Avevano carne, riso, verdure. Allo stesso tempo, ci lasciavano il nostro pasto, che a volte consisteva in appena 10 ceci o un pezzo di pane secco, che non sempre era ben cotto.
Ci hanno trasferiti in un ospedale, ora so che era l'ospedale Nasser. Ci hanno fatto entrare dall'ingresso posteriore e ci hanno fatto passare davanti a tutti i civili. Nell'ospedale c'era un'area chiusa e utilizzata solo da Hamas, con una guardia armata.
Ci hanno rinchiusi in una stanza, dove abbiamo incontrato un terzo ostaggio.
Così me ne sono andato con un vuoto nel cuore. Ho promesso ai miei amici che avrei fatto tutto il possibile per riportarli a casa. E ora sto mantenendo quella promessa.
La gente vede il mio volto e pensa che io sia “libero”. Ma la libertà non è un interruttore che si può accendere e spegnere. Il trauma non svanisce una volta che sei libero.
Ora, ogni volta che suona una sirena, ogni volta che viene lanciato un razzo dall'Iran, dallo Yemen o da Gaza, vengo catapultata di nuovo in quell'inferno. La differenza è che io ho una stanza sicura. Matan no. Lui è ancora a Gaza.
 
Non sono qui solo per me stessa, ma per ogni donna e ogni uomo che non è riuscito a tornare a casa. Per ogni voce che è stata ignorata. Per i 50 ostaggi ancora a Gaza. Per le loro famiglie.
Chiedo alle organizzazioni per i diritti umani e a tutti coloro che dicono di avere a cuore questa causa: state con noi. Fate sentire la vostra voce. Chiedete la verità. Perché il silenzio è tradimento".
La sua denuncia più dura è stata rivolta al comportamento ambiguo della comunità internazionale: “Quando i cartelli in Messico uccidono e torturano, il mondo li chiama terroristi. Perché con Hamas si esita? Perché chi brucia vivi i bambini, violenta le donne, mutila i corpi non viene condannato allo stesso modo? Perché i racconti delle vittime ebree vengono messi in dubbio?”. Ha parlato apertamente di tradimento e ipocrisia, accusando il Consiglio di Sicurezza di non avere il coraggio di nominare Hamas per quello che è: un’organizzazione terroristica.
 
Ilana ha poi rivolto un appello diretto: “Non voltatevi dall’altra parte. Non lasciate che divisioni politiche soffochino le voci delle vittime. Pretendete la liberazione immediata e senza condizioni di ogni ostaggio. Non domani, non in un futuro indefinito: adesso”.
 
Nel finale, le sue parole si sono fatte intime, rivolte a Matan: “Tua madre, tua sorella, il nostro cane Noni ed io… ti stiamo aspettando. Io ti sto aspettando”. Un messaggio d’amore e di resistenza che ha trasformato un discorso politico in un grido universale: riportare a casa chi è ancora prigioniero.

alex

Agosto 2025 - A Gaza i set della fame-show, così vi ingannano i fotografi Propal“Pronti? Agitate le scodelle, bravi”

A Gaza i set della fame-show, così vi ingannano i fotografi Propal

 

“Pronti? Agitate le scodelle, bravi”

Aldo Torchiaro

Una recente inchiesta di ILTV News – rete israeliana in lingua inglese specializzata in politica estera, sicurezza e disinformazione – ha svelato l’ennesima messinscena orchestrata da Hamas per manipolare l’opinione pubblica internazionale: finte scene di fame a Gaza, costruite ad arte per commuovere, indignare e orientare il giudizio dei media occidentali.

Pentole vuote e persone in posa

 Il caso emblematico riguarda il fotografo Anas Zayed Fatiyeh, legato a un’agenzia turca vicina al presidente Erdoğan. Secondo quanto ricostruito, Fatiyeh avrebbe diretto una protesta simulata denominata “Hunger Campaign in Gaza”, dove individui selezionati sono stati messi in posa con pentole vuote per inscenare l’emergenza umanitaria. Una messinscena, nulla più. Per aumentare l’efficacia mediatica, gli organizzatori hanno inserito donne e bambini in primo piano. Il tutto in quartieri del sud della Striscia saldamente controllati da Hamas, dove ogni produzione fotografica – non è un dettaglio – è filtrata, approvata o organizzata dal regime stesso. Secondo una fonte diplomatica israeliana, sono almeno quindici i set fotografici disseminati nella Striscia di Gaza e allestiti con cura teatrale: tende, comparse, cartelli e regia.

La condanna dell’ambasciatore

 Un’indagine della Süddeutsche Zeitung ha mostrato che le immagini usate in Occidente per denunciare la fame non ritraggono file per ricevere aiuti, bensì gazawi in posa, rivolti ai fotografi, non ai camion umanitari. Il quotidiano tedesco Bild ha confermato che uno degli autori di queste immagini lavora per un’agenzia turca e diffonde regolarmente contenuti antisemiti e anti-Israele sui propri profili social. Un esperto tedesco ha dichiarato: «Queste foto non servono a documentare la fame, ma a rimpiazzare le immagini crudeli del 7 ottobre nella mente dell’opinione pubblica». Anche l’ambasciatore israeliano Jonathan Peled condanna l’irrispettosa farsa della fame: «Ancora una volta riscontriamo uno schema già utilizzato in precedenza, che sfrutta le immagini dei bambini per le abominevoli falsificazioni di Hamas. Stavolta, il tabloid tedesco Bild smaschera la deplorevole propaganda mediatica di Hamas, dimostrando quanto le immagini di bambini e adulti disperatamente alla ricerca di cibo esibendo pentole vuote siano frutto di una spregiudicata messa in scena». Il diplomatico israeliano rincara la dose: «La diffusione di immagini artefatte, in cui l’esasperazione e la sofferenza dei palestinesi vengono sfruttate per suscitare del sensazionalismo mediatico contro Israele, é inaccettabile e inammissibile. Chiediamo a tutta la stampa italiana ed estera che abbia fatto utilizzo di queste fotografie ingannevoli di presentare immediatamente una rettifica pubblica. Fare informazione corretta é un dovere professionale, prima ancora che un imperativo morale».

Riscrivere la storia con la fotografia

 Il gioco è evidente: falsificare la memoria, rovesciare la colpa, riscrivere la storia con la fotografia. È il giornalismo deepfake, dove l’immagine non testimonia, ma fabbrica. La domanda è: perché la Turchia ha interesse a tutto questo? Perché Erdoğan finanzia media, agenzie e attivisti dediti a gonfiare ad arte la rabbia antisraeliana e antisemita in Europa? Perché, da anni, Ankara ha fatto della causa palestinese lo strumento perfetto di destabilizzazione del blocco euroatlantico: un grimaldello geopolitico per incendiare le periferie, infiammare le piazze, colpire l’asse israelo-occidentale. L’odio per Israele diventa così carburante per una guerra culturale combattuta in nome della Turchia neo-ottomana, islamista e revisionista. E a pagare il conto, spesso, sono le comunità ebraiche europee. Nel frattempo, la macchina della propaganda si affina. Hamas utilizza bambini, anziani e pentole come attrezzi di scena. Ogni lacrima è un ciak. Ogni posa, un’inquadratura studiata. Ogni fotografia, un’iniezione di colpa destinata al pubblico occidentale, sempre più pronto a farsi ingannare.
   Ma perché siamo così propensi a crederci? Perché troppi utenti della rete, oggi, non cercano verità, ma conferme. Vivono in ambienti digitali filtrati – le famigerate echo chambers – dove la complessità è bandita, la compassione è un automatismo, e il frame tragico vale più del contesto. Ci siamo disabituati a pensare, a verificare, a domandarci: chi scatta questa foto? Perché? Chi ne beneficia? È lo schema perfetto: creare immagini false ma verosimili, infilarci dentro un’innocenza manipolata – un neonato, un volto impaurito – e poi gettarle nel mare aperto dei social e delle redazioni europee, dove si trasformano in verità virale. E funziona: la narrazione del popolo affamato ottunde la memoria del 7 ottobre, cancella gli ostaggi, cancella le responsabilità.
   Gli analisti parlano chiaro: Hamas sfrutta queste immagini per nascondere il blocco degli aiuti da parte del gruppo stesso e le sue attività terroristiche, condotte con cinismo sotto la copertura di ospedali, scuole, infrastrutture civili. L’obiettivo non è informare, ma avvelenare. Non raccontare, ma incendiare. .

(Il Riformista, 7 agosto 2025)

 

alex

Luglio 2025 - “Assassini ebrei tornate a casa”. Famiglia aggredita in autogrill"

Sull’aggressione indaga la Digos, coordinata dalla procura di Milano: nelle immagini delle telecamere interne ed esterne dell’autogrill si cercano indizi per dare un nome alle persone che si sono scagliate contro padre e figlio.

Il primo grido che si alza è «Palestina libera». Ne segue un altro, subito dopo, dello stesso tenore: «Free free Palestine». Il telefono che sta filmando si inclina per un attimo, poi davanti alla telecamera appare un uomo di mezza età. Tazzina del caffè in mano, attacca: «Qui non è Gaza, siamo in Italia, siamo a Milano. Assassini». Le voci diventano più numerose: «Assassino, assassino». «Genocidio», urla qualcuno che è più distante. Mentre una donna si fa sotto ripetendo «free free Palestine» e il signore di prima ricomincia con l’offensiva: «Andate a casa vostra, assassini». Quindi è il momento di un’altra voce femminile: «Andate all’inferno prima voi».

Nelle immagini compare un bimbo: ha sei anni, la kippah in testa. È accanto al padre: un uomo di cinquantadue anni francese, residente a sud di Parigi, che si trova a Milano per far visita a sua figlia che vive in città. È lui a registrare quella clip per denunciare l’aggressione antisemita — verbale e fisica — subita alle 20,30 di domenica nell’area di servizio Villoresi Ovest sull’autostrada A8. «Un gruppo di persone mi ha urlato “assassino, Palestina libera” e altre frasi di questo tenore», racconterà lui stesso nella querela. Ma è solo l’antipasto. Perché quando il cinquantaduenne e il bimbo escono dal bagno finiscono di nuovo nel mirino: «Si sono scagliati contro di me per farmi cancellare il video. Ricordo che sono stato aggredito mentre ero in piedi. Sono caduto e sono stato colpito con calci e pugni». Botte che gli hanno causato ferite lievi e la rottura degli occhiali.

«Ne hanno approfittato come animali prendendomi a calci. Non vedevo mio figlio, fortunatamente era con una signora. Ho visto bestie selvagge», i frame impressi nella mente del cinquantaduenne che dal bagno aveva chiesto aiuto via telefono al genero, che viaggiava con la moglie su un’altra auto. «Purtroppo noi ebrei dobbiamo avere paura», ha detto il familiare della vittima.

 

Sull’aggressione indaga la Digos, coordinata dalla procura di Milano: nelle immagini delle telecamere interne ed esterne dell’autogrill si cercano indizi per dare un nome alle persone che si sono scagliate contro padre e figlio, la cui unica colpa è stata indossare la kippah durante una sosta per accompagnare in bagno il piccolo.

«L’aggressione ci segnala per l’ennesima volta come l’antisemitismo sia in forte crescita nel nostro Paese», ha evidenziato Davide Romano, direttore del Museo milanese della Brigata ebraica. Dalla comunità ebraica di Roma sono arrivati «indignazione e sconcerto»: «Tutto questo è inaccettabile soprattutto in Italia, il nostro Paese, fondato su valori di cui siamo orgogliosi ma che purtroppo non è immune al drammatico incremento degli episodi di odio antiebraico in tutto il mondo», le parole del presidente Victor Fadlun. Di «inquietante e inaccettabile aggressione antisemita», ha parlato il presidente del Senato, Ignazio La Russa, condannando «con fermezza e senza ambiguità un atto tanto vile quanto ignobile». «Mi preoccupano certi germi, pensavo che la bestia dell’antisemitismo fosse morta il secolo scorso», gli ha fatto eco il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini. La vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno, del Pd, si è detta «sdegnata» rimarcando che «i crimini di Netanyahu non possono giustificare atti di violenza contro cittadini di religione ebraica». Sulla stessa linea il senatore dem Graziano Delrio: «È inaccettabile che si pensi di rispondere all’odio con altrettanto odio e che si pensino di individuare come responsabili persone che nulla hanno a che fare con le politiche del governo israeliano». È «terribile se basta avere una kippah per farsi aggredire», la riflessione del sindaco di Milano, Giuseppe Sala. Proprio nell’aula di Palazzo Marino Daniele Nahum, consigliere di Azione, ha indossato la kippah durante il suo intervento in segno di solidarietà.

 

Fonte: La Repubblica

alex

"Se imparare dalla storia ci insegna qualcosa, è che non impariamo mai dalla storia."

Rilascio degli ostaggi tra dure polemiche: emaciati e denutriti, sono l’ombra di loro stessi

 

Tre ostaggi israeliani rapiti il 7 ottobre 2023 sono stati rilasciati sabato 8 febbraio da Hamas dopo 16 mesi di prigionia. Eli Sharabi, 52 anni, Or Levy, 34, e Ohad Ben Ami, 56, sono apparsi estremamente magri e debilitati mentre venivano consegnati alla Croce Rossa nella città di Deir al-Balah, a Gaza.

Chi sono gli ostaggi liberati?

  • Eli Sharabi, 52 anni, è stato rapito da Kibbutz Be’eri il 7 ottobre. Sua moglie e le due figlie sono state uccise durante l’attacco di Hamas, e anche suo fratello Yossi è stato sequestrato e successivamente ucciso. La sua famiglia ha descritto il suo ritorno come un sogno sia personale che nazionale.
  • Ohad Ben Ami, 56 anni, contabile e padre di tre figlie, è stato rapito dallo stesso kibbutz. La moglie, Raz, è stata liberata nel primo scambio di novembre 2023. Da ottobre non vi era alcuna prova di vita di Ohad, e la sua famiglia ha vissuto mesi di angoscia e incertezza.
  • Or Levy, 34 anni, è stato sequestrato al Nova Festival mentre tentava di fuggire con la moglie Einav, uccisa nell’attacco. La coppia ha un figlio piccolo, Almog, che da allora viene cresciuto dalla famiglia. I parenti hanno raccontato le difficoltà di spiegare al bambino l’assenza del padre.

Un ritorno segnato dal dolore

Israele ha celebrato il ritorno di tre ostaggi detenuti da Hamas: Eli Sharabi, Ohad Ben Ami e Or Levy. La loro liberazione è avvenuta sabato, nell’ambito dell’accordo di cessate il fuoco e scambio di prigionieri dopo 16 mesi di prigionia.

Magri e provati, Sharabi e Levy sono tornati in un incubo familiare: Sharabi ha scoperto solo al suo arrivo in Israele che la moglie e le due figlie adolescenti (foto in basso) erano state assassinate il 7 ottobre. Anche la moglie di Levy è stata uccisa durante l’attacco di Hamas. Le loro famiglie, con l’aiuto di professionisti, hanno dovuto affrontare il difficile compito di comunicare loro queste tragiche notizie.

Michal Cohen, madre di Ben Ami, ha dichiarato: “Mio figlio sembra un uomo distrutto. Ha 57 anni, ma ne dimostra dieci di più. È uno scheletro.”

Il fratello di Levy ha aggiunto: “È molto, molto magro. È difficile vederlo così, ma almeno è tornato e potrà riprendersi con il tempo.”

La reazione politica e le critiche a Netanyahu

Un comunicato dell’ufficio del Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha definito “inaccettabili” le condizioni in cui i tre ostaggi sono stati rilasciati, promettendo azioni in risposta. “Le immagini scioccanti che abbiamo visto oggi non passeranno senza conseguenze”, si legge nel comunicato. “Israele è impegnato a riportare tutti gli ostaggi a casa.”

Le reazioni dei familiari degli ostaggi

Tuttavia, la gestione della situazione da parte di Netanyahu ha suscitato dure critiche. Yehuda Cohen, il padre di un ostaggio ancora detenuto, ha condannato il fatto che il premier sia rimasto a Washington nel fine settimana invece di concentrarsi sulla liberazione degli ostaggi: “Mentre cittadini israeliani vengono rilasciati dalla prigionia di Hamas in condizioni simili a quelle dei sopravvissuti dell’Olocausto, Netanyahu si trova in una suite di lusso a Washington, a spese dei contribuenti israeliani.”

Anche Einav Zangauker, madre di un ostaggio ancora a Gaza, ha espresso rabbia: “Non penso che ci sia una goccia di sangue nel mio corpo che non stia ribollendo di rabbia. Il mio ragazzo sta vivendo un Olocausto. Oggi i sopravvissuti sembravano usciti dai campi di concentramento. Il primo ministro deve porre fine alla guerra e riportare tutti gli ostaggi, oggi.”

Il Forum delle Famiglie degli Ostaggi e dei Dispersi ha accolto con favore la notizia, sottolineando che la lotta continuerà fino al ritorno di ogni ostaggio, vivo o deceduto, per garantire la riabilitazione dei sopravvissuti e la degna sepoltura dei caduti. Le famiglie degli ostaggi chiedono un’accelerazione della trattativa per la seconda fase dell’accordo di cessate il fuoco e rilascio degli ostaggi. Tuttavia, Netanyahu ha ritardato l’invio di una squadra negoziale, apparentemente violando i termini dell’accordo, suscitando ulteriore preoccupazione tra i parenti degli ostaggi ancora prigionieri.

Il contesto del rilascio

Questa liberazione rientra nella prima fase del cessate il fuoco iniziato il 19 gennaio, che dovrebbe durare 42 giorni. Secondo l’accordo, Hamas ha il potere di decidere l’ordine dei rilasci, ma è tenuto a liberare prima gli ostaggi vivi.

 

Fonte: Bet Magazine Mosaico 

alex

QUANDO I MEDIA COLLABORANO AD ATTUARE LA STRATEGIA ASSASSINA DI SINWAR

Dopo la morte di Yahya Sinwar sono emerse prove documentali che confermano ciò che molti osservatori già sapevano: il capo di Hamas usava come un’arma la morte di civili a Gaza, in particolare donne e bambini.
Aveva capito che i media avrebbero enfatizzato queste morti civili attribuendole tutte a Israele, col risultato di aumentare la pressione sul governo israeliano affinché si piegasse alle irragionevoli pretese di Hamas.
Ecco come il Wall Street Journal ha descritto la cosa, dopo una lunga indagine: mentre “i mediatori arabi si affannavano ad accelerare i colloqui su un cessate il fuoco … Sinwar in un messaggio esortava i suoi compagni della dirigenza politica di Hamas fuori Gaza a non fare concessioni e premere invece per la fine permanente della guerra. Un elevato numero di vittime civili avrebbe generato una pressione mondiale su Israele, diceva Sinwar”.
 
Questa “strategia del bambino morto” è stata utilizzata da Hamas per decenni. I suoi capi considerano l’aumento del numero di vittime civili palestinesi che viene riportati come necessario per la loro vittoria, sia di fronte al tribunale dell’opinione pubblica sia nei tribunali giudiziari. Per questo dichiarano che i civili morti sono “martiri” e incoraggiano (o costringono ndr) i civili a rimanere in luoghi pericolosi e mescolati ai combattenti di Hamas.
 
Questa potrebbe essere la prima volta nella storia militare che i capi hanno pubblicamente ammesso d’aver messo in pericolo la propria stessa gente per aumentare il numero delle vittime (si veda qui https://stratcomcoe.org/.../pfiles/hamas_human_shields.pdf , qui https://www.jns.org/hamas-shooting-palestinians-seeking.../, qui https://www.timesofisrael.com/hamas-shooting-gazan.../, e qui https://www.tabletmag.com/.../how-gaza-health-ministry...).
Senza il supporto dei media, questa strategia non avrebbe successo. Essa richiede che i media riportino le cifre delle vittime civili diramate da Hamas in modo acritico e senza indagare sulle sotto-componenti delle cifre riportate.
E’ così che i media parlano continuamente di circa 43.000 morti palestinesi. Hamas potrebbe facilmente distinguere tra morti combattenti e non combattenti, ma si rifiuta di farlo. Distingue, invece, tra maschi adulti, donne e quelli che definisce “bambini”.
Non ammette che molti di questi cosiddetti bambini erano anche combattenti. Hamas definisce “bambino” chiunque abbia meno di 19 anni, anche quando si tratta di terroristi di 15, 16, 17 o 18 anni reclutati e addestrati da Hamas per uccidere israeliani.
Hamas fa lo stesso con le donne, diffondendo l’impressione che solo gli uomini possano essere terroristi.
noltre, non distingue mai le vittime da fuoco amico causate dai razzi lanciati da Hamas, Jihad Islamica e altri gruppi terroristici i cui razzi hanno un alto tasso di fallimento e molti dei quali si abbattono dentro la striscia di Gaza.
 
Diffondono l’idea che tutti coloro che non sono membri di Hamas sono civili innocenti. Ma molti “civili” non appartenenti a Hamas sono stati direttamente coinvolti nei massacri, negli stupri e nei rapimenti del 7 ottobre 2023. Altri hanno acclamato quei barbari mentre tornavano a Gaza trascinando con sé gli ostaggi, vivi e morti. Altri ancora hanno permesso che le loro case venissero usate per tenere prigionieri gli ostaggi. Molti hanno contribuito a Hamas finanziariamente e in altri modi.
Poi ci sono gli scudi umani, alcuni volontari, altri costretti, che sono morti per essere stati deliberatamente messi in pericolo in base alla strategia di guerra di Sinwar di aumentare al massimo le morti dei civili.
Di conseguenza, nessuno conosce realmente il numero preciso di palestinesi innocenti uccisi. Non sarebbe sorprendente se un’attenta ripartizione dei morti portasse a una cifra inferiore a 10.000 vittime civili ragionevolmente ascrivibili a Israele anziché alla strategia Sinwar.
 
Ma anche una cifra che fosse il doppio, sarebbe comunque un numero significativamente contenuto rispetto alle cifre di vittime in altre guerre urbane combattute dalla Nato e dai paesi democratici. Corrisponderebbe a un rapporto approssimativo di un civile ucciso per ogni combattente ucciso. E significherebbe che circa l’uno percento della popolazione civile di Gaza è rimasta vittima di una guerra scatenata da Hamas e combattuta facendosi scudo dei civili. In guerre urbane comparabili, i rapporti sono stati sempre peggiori per i civili.
Eppure i media fanno apparire Israele come il peggior criminale della storia. E gli utili ignoranti nei campus universitari, insieme ai faziosi nelle organizzazioni internazionali, accusano falsamente Israele di genocidio, nonostante gli sforzi fatti con successo dalle Forze di Difesa israeliane per ridurre le vittime civili al minimo possibile, compatibilmente con il raggiungimento dei loro obiettivi militari.
 
È giunto il momento di condurre indagini e valutazioni credibili sul numero effettivo di abitanti di Gaza uccisi, secondo le diverse categorie. In mancanza di un resoconto onesto, i media continueranno a fare lo sporco, efferato lavoro di Sinwar: aumentare le vittime palestinesi allo scopo di aumentare la pressione su Israele.
Attuare la strategia di Sinwar, anche dopo la sua morte, avrà come risultato un numero maggiore di morti palestinesi, la continuazione della guerra e la demonizzazione di Israele. Questo è esattamente ciò che Sinwar chiedeva ai suoi seguaci di fare dopo la sua morte. Non gli si dovrebbe permettere di realizzare i suoi obiettivi assassini in modo postumo.
Riferire la verità impedirà che ciò accada, perché la strategia Sinwar si fonda e fa affidamento su un’informazione da parte dei media selettiva e menzognera.
 
Purtroppo, la rovinosa collaborazione dei media con la strategia dei terroristi ci dice molto di più sui media stessi che non sulla guerra che i media pretendono di “raccontare”.
 
Nella foto: L’allora capo di Hamas Isamil Haniyeh a Doha (Qatar): “L’ho già detto e lo ripeto: il sangue delle donne, dei bambini e degli anziani, siamo noi che abbiamo bisogno di questo sangue” 
Israele. Net

alex

17.10.2024 - Sinwar ("ironia" della sorte? Sin = peccato - War = Guerra)  è morto, il leader di Hamas ucciso in un raid dell'Idf. Netanyahu: “L'arciterrorista ha pagato il conto ma non abbiamo finito. Liberate gli ostaggi”

Le Forze di Difesa Israeliane confermano che "Il grande assassino Yahya Sinwar, responsabile del massacro e delle atrocità del 7 ottobre, è stato ucciso oggi dai soldati dell'IDF. Questo è un grande risultato militare e morale per Israele e una vittoria per l'intero mondo libero, contro l'asse del male dell'islamismo estremo guidato dall'Iran."
L'eliminazione di Sinwar apre la possibilità per il rilascio immediato dei rapiti e per un cambiamento che porterà a una nuova realtà a Gaza – senza Hamas e senza il controllo iraniano.

Gaza libera? Certo! Da questi personaggi.

Hanno provocato morti tra ebrei e la distruzione di Gaza.
Liberiamo Gaza! Grazie ai soldati dell’Idf!

alex

L’attacco o pogrom del 7 ottobre è stato per gli israeliani la rivisitazione di un incubo: hanno rivisto degli ebrei, uomini, donne, bambini e anziani, fuggire disperati, hanno rivisto le proprie case bruciate, le proprie madri, mogli, figlie stuprate, hanno rivisto la paura nei propri fratelli. Uno shock che li ha riportati indietro nel tempo, che ha risvegliato un antico sgomento. Riassumendo: un piccolo territorio, un piccolo popolo, con un nemico sulla porta di casa, colpito da un massacro con il sapore di un incubo che si credeva estirpato per sempre. Sono tutti questi elementi ad avere scandito in modo indelebile la data del 7 ottobre nella psiche israeliana.

E per comprendere questa psiche c’è un ultimo aspetto da considerare: la politica o, meglio, la diplomazia. Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha dichiarato nei giorni successivi al 7 ottobre che l’aggressione di Hamas non è avvenuta “nel vuoto”. Intendeva dire che è stata l’ultimo atto di un lungo conflitto. In Israele il suo commento è stato interpretato come una giustificazione del massacro: come se Guterres lo presentasse alla stregua di una reazione legittima.

Al di là della polemica che ne è seguita, l’intervento del segretario generale dell’Onu ripropone una vecchia dinamica nel racconto del conflitto israeliano-palestinese: ogni atto di violenza, si ripete spesso, è preceduto da un atto di violenza di segno opposto, e così di violenza in violenza si può risalire alla guerra del 1967, a quella del 1948, al 1917 (data della Balfour Declaration, la dichiarazione dell’allora ministro degli esteri britannico Arthur Balfour sul diritto a un “focolaio nazionale ebraico” nella Palestina all’epoca sotto il dominio del British Empire, che accentuò l’immigrazione ebraica nella Terra Promessa) e di questo passo a ritroso, secondo alcuni, fino alla Bibbia. Non c’è dubbio che le radici del conflitto siano vecchie di più di un secolo. E che Israele, in particolare il suo leader Benjamin Netanyahu, abbia responsabilità per come Hamas ha rafforzato il proprio potere a Gaza; oltre che per non avere previsto, impedito o almeno rapidamente respinto l’attacco del 7 ottobre.

Ma nella mente degli israeliani non è necessario tornare indietro fino ad Abele e Caino nel valutare quello che è successo quel giorno. È sufficiente tornare al 2005. Il 2005 è l’anno in cui Israele si ritirò unilateralmente da Gaza. Da allora, cioè da quasi vent’anni, a Gaza non è rimasto un solo soldato o civile israeliano. Da allora all’interno di Gaza non ci sono più insediamenti ebraici o strade riservate agli israeliani, come è invece il caso in Cisgiordania: la Striscia era tutta dei palestinesi. I palestinesi potevano farne quello che volevano.

L’anno successivo, prendendo il potere a Gaza, Hamas, riconosciuta come un’organizzazione terroristica da Stati Uniti, Unione Europea, Regno Unito e altri Paesi, ne ha fatto un centro di attacchi contro Israele: la base per incursioni, rapimenti di ostaggi, lanci di razzi su obiettivi civili dello Stato ebraico. Da allora, Hamas ha speso centinaia di milioni per creare a Gaza tunnel sotterranei da cui fare entrare armi o da cui attaccare Israele o in cui nascondersi. Da allora, Hamas ha imposto su Gaza un regime islamico fondamentalista e autocratico, senza tenere una singola elezione. È vero che Israele controllava i confini di Gaza, insieme per la verità a un Paese arabo, l’Egitto.

Ciononostante, a dispetto del governo fondamentalista e illiberale imposto da Hamas, nei periodi di relativa quiete quei confini venivano aperti per consentire a migliaia di palestinesi di Gaza di lavorare in Israele: di fare i pendolari, uscendo da Gaza la mattina per tornarci la sera. Solo quando Hamas lanciava razzi e attaccava Israele, Israele chiudeva ermeticamente i confini.

Nei mesi, nelle settimane, nei giorni precedenti al 7 ottobre, la diplomazia degli Stati Uniti lavorava con crescente fiducia all’obiettivo di raggiungere un accordo per un trattato di pace fra Israele e Arabia Saudita, ultimo e più importante tassello degli Accordi di Abramo firmati nel 2020 da Gerusalemme con quattro Paesi arabi.

Un accordo che avrebbe avuto come condizione essenziale, da parte saudita, con il sostegno americano, il rilancio del negoziato israeliano-palestinese, allo scopo di creare uno Stato palestinese. Alla trattativa partecipavano gli stessi palestinesi: non i palestinesi di Hamas, bensì i rappresentanti dell’Autorità Nazionale Palestinese. Impedire quel grande accordo mediato dall’America, che avrebbe avvicinato la pace e messo in difficoltà Hamas, era probabilmente l’intento dell’attacco lanciato da Hamas il 7 ottobre, ispirato o almeno autorizzato dall’Iran: il regime che chiama l’America “il Grande Satana” e Israele “il piccolo Satana”.

Questo è tutto quello che va tenuto a mente, leggendo la cronaca dettagliata di Sharon Nizza su cosa è successo il 7 ottobre 2023, per comprendere appieno l’impatto che ha avuto in Israele e per giudicarlo dalla nostra Europa.

Testo estratto dalla prefazione a “7 ottobre 2023”

Inviato da alex il

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