La banalità dell'odio (che è sempre degli altri)
Quando la Russia invase l'Ucraina si diede inizio a un'attività di osservazione lessicale: interessava appurare che uso si sarebbe fatto di tutto il repertorio bellicista e cattivista con cui nel discorso comune e giornalistico ci riferiamo a normali, e incruente, vicende sportive, professionali, persino coniugali: killer, spararla grossa, far fuori, in trincea, bombardare, assediare, non fare prigionieri, col bazooka, col kalashnikov, eccetera.
L'insorgenza di una guerra effettiva avrebbe smorzato la bellicosità verbale e iperbolica con cui pensiamo di dare importanza ai nostri fatterelli? Risultato: l'uso enfatico del lessico guerresco si è dapprima parzialmente attenuato ma poi è ripreso come al solito. Come al solito ci devono pensare i lettori a distinguere i contesti, per cui l'attacco, l'offensiva e l'aggressione significano qualcosa di diverso se si incontrano nelle pagine su Ucraina e Gaza, in quelle di campagna elettorale per le regionali o magari in quelle sul campionato di pallone. E continuiamo a dire «sto morendo di fame» se il cameriere tarda anche se sappiamo la carestia indotta è una delle strategie inumane che devasta la popolazione della Striscia di Gaza.











