Quando la Russia invase l'Ucraina si diede inizio a un'attività di osservazione lessicale: interessava appurare che uso si sarebbe fatto di tutto il repertorio bellicista e cattivista con cui nel discorso comune e giornalistico ci riferiamo a normali, e incruente, vicende sportive, professionali, persino coniugali: killer, spararla grossa, far fuori, in trincea, bombardare, assediare, non fare prigionieri, col bazooka, col kalashnikov, eccetera.

L'insorgenza di una guerra effettiva avrebbe smorzato la bellicosità verbale e iperbolica con cui pensiamo di dare importanza ai nostri fatterelli? Risultato: l'uso enfatico del lessico guerresco si è dapprima parzialmente attenuato ma poi è ripreso come al solito. Come al solito ci devono pensare i lettori a distinguere i contesti, per cui l'attacco, l'offensiva e l'aggressione significano qualcosa di diverso se si incontrano nelle pagine su Ucraina e Gaza, in quelle di campagna elettorale per le regionali o magari in quelle sul campionato di pallone. E continuiamo a dire «sto morendo di fame» se il cameriere tarda anche se sappiamo la carestia indotta è una delle strategie inumane che devasta la popolazione della Striscia di Gaza.

Nessun imbarazzo viene più provato per la coincidenza perfetta fra la realtà letterale e l'evocazione metaforica ed enfatica, che anzi diventa via via più greve. Ora è venuto il momento dell'odio. L'arma dialettica è estrema: oltre non si può andare perché il vocabolario finisce lì. Di lì in poi si possono soltanto menare le mani, o peggio. Nel discorso pubblico l'odio non è mai reciproco e non è mai proprio: è sempre attribuito all'altra parte. Questo perché l'odio, a differenza dell'agonismo e dell'avversione semplice, giustifica la distruzione della controparte e dunque non lo si può predicare pubblicamente di sé. Ammettere di odiare significa porsi fuori dalla civiltà.

Affermare di essere odiati è invece il modo di porre fuori dalla civiltà la controparte: strategia di delegittimazione di cui Silvio Berlusconi è stato campione assoluto. Forse era addirittura, fra le tante, la specialità in cui più eccelleva. Dopo l'aggressione subita in Piazza del Duomo, a Milano, nel dicembre del 2009, da parte di un ragazzo squilibrato, riunì i messaggi di solidarietà che gli arrivarono in un libro intitolato L'amore vince sempre sull'invidia e sull'odio (Mondadori, 2010). L'invidia è infatti proprio l'odio altrui che si manifesta nello sguardo, nel vedere di malocchio: odio unilaterale, l'invidia reciproca sarebbe del tutto atipico. Come con il nome di Forza Italia e il colore azzurro aveva occupato il posto della Nazionale contro il resto del mondo, così si metteva dalla parte dell'amore, vincente contro l'odio.

Quando però si è con i propri, e a patto che nulla trapeli all'esterno, l'odio è un collante e corroborante del tutto conveniente, poiché concentra gli sforzi contro un nemico che è lecito e anzi doveroso voler distruggere. Succede in Italia, succede nel mondo: sterminato e sterminante.

Questa è Lapsus del 21 settembre 2025, la rubrica di Stefano Bartezzaghi sulle parole del momento - Repubblica

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Inviato da alex il

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