
La prima crociata fu indetta il 27 novembre 1095 dal
papa Urbano II,
il giorno prima della fine dei lavori del Concilio di Clermont (18-28
novembre 1095). Venne indetta dopo un concilio tenuto a Melfi nel 1089,
con l’obiettivo di portare aiuto alla cristianità orientale preoccupata
dall’invasione dei Selgiuchidi.
Durante l’XI secolo si era manifestata una serie di fenomeni
positivi per l’Occidente europeo, che avevano permesso la presa di
coscienza di una rinnovata forza: lo slancio demografico, la ritrovata
mobilità sociale.
Inoltre le fortunate campagne militari contro i mori in Spagna ed in
Sicilia, la riappropriazione dello spazio mediterraneo da parte delle
città marinare italiane, provenzali e catalane, erano stati tutti
esempi per la futura crociata.
Nonostante ciò non si deve pensare a una pianificazione a tavolino
della “crociata” (nome che compare solo dal XIII secolo), poiché sembra
che il movimento nacque quasi per caso, con effetti che nessuno poteva
all’epoca calcolare. Non esistendo il concetto di “guerra santa” nel
Cristianesimo, le spedizioni erano ritenute giuste poiché di difesa e
rappresentarono un’originale fusione tra guerra e pellegrinaggio (i
crociati avevano infatti gli stessi privilegi spirituali dei
pellegrini). La disciplina che più da vicino fece da modello alla
“crociata” fu quella stabilita da papa Alessandro II per la spedizione
in Aragona contro i mori del 1063. In quell’occasione il pontefice
aveva concesso ai cristiani di portare in battaglia il vessillo di San
Pietro, una bandiera con carattere sia di benedizione sacrale che di
investitura giuridica feudale. Con la vittoria e le gloriose cronache
dell’epoca, arricchite di miracoli e di gesta epica in uno scontro tra
“Vizio” e “Virtù”, si iniziò a concepire la guerra agli “infedeli” come
spiritualmente meritoria.
La zona di Gerusalemme era finita oggetto della lotta fra Bizantini,
Arabi e Turchi. Sotto la sovranità araba non si erano verificati
incidenti di sorta fra musulmani e cristiani (nasrani in
arabo), a parte sotto il sovrano fatimide d’Egitto al-Hakim, all’inizio
del XI secolo, sebbene i cristiani fossero ridotti in una posizione
servile. La città di Antiochia era caduta nel 1085 grazie al vittorioso
assedio dei turchi selgiuchidi. La componente selgiuchide che si
sarebbe autodefinita “di Rūm”, cioè “romea”, “dell’area bizantina”, era
arrivata a insediarsi a Nicea, attuale Iznik. Praticamente l’Asia
minore era stata conquistata. Di fronte a questo crescente pericolo
proveniente da oriente, l’Impero bizantino fu indotto a rivolgersi per
cercare aiuto all’Occidente latino. È ciò che per l’appunto fece
l’imperatore bizantino Alessio I Comneno.
I turchi selgiuchidi avevano preso a vessare le carovane dei
pellegrini cristiani d’oriente e d’occidente che da secoli si recavano
a Gerusalemme in pellegrinaggio. Si parlò di rapine, sequestri,
uccisioni, stupri di pellegrini che iniziarono così a viaggiare sotto
la scorta di piccoli gruppi armati, ma al di là di questo, era la
montante potenza selgiuchide a terrorizzare il mondo cristiano che,
dopo la disastrosa disfatta di Romano IV Diogene a Manzicerta, temeva
che si stesse profilando un terribile cataclisma anche per la
Cristianità latina e che l’Impero selgiuchide avrebbe potuto conseguire
la conquista islamica dell’Europa.
L’imperatore bizantino Alessio Comneno chiese aiuto al conte di
Fiandra tramite una lettera. Questa circostanza tornò a favore di Papa
Urbano II, il quale, secondo il cronista Bernoldo di Costanza, avrebbe
fatto riferimento all’aiuto da portare ai Cristiani d’Oriente nel
concilio di Piacenza, precedente l’accorato appello finale di Clermont.
Ricordiamo che nel 1054 la tradizionale estraneità tra la Chiesa
occidentale che faceva riferimento al Papa e la Chiesa orientale che
faceva riferimento al Patriarca di Costantinopoli era sfociata in uno
scisma. Il motivo è la disputa del “filioque”, in realtà è un braccio
di ferro fra i due vescovi che si contendono il primato.
Quindi, anche se fu l’imperatore bizantino a domandare aiuto,
l’appello di Urbano II fu fatto ufficialmente per salvare i Cristiani
d’Oriente dalla loro situazione drammatica. Quando Papa Urbano II
indisse un pellegrinaggio armato al concilio di Clermont (1095) nessuno
pronunciò la parola “crociata”. Lo scopo era l’arrivo di una massa di
pellegrini nei luoghi santi della Cristianità.
Nel progetto di Papa Urbano II, aiutando Alessio Comneno a
ristabilire la sua autorità, sul lungo periodo, avrebbe posto le basi
per una riconciliazione e riunificazione tra la Chiesa d’Occidente e
quella d’Oriente nella lotta contro gli infedeli.
Il tentativo fallì sin dalla Prima crociata. Innanzitutto, la prima
risposta da parte dei fedeli la si ebbe con la cosiddetta Crociata dei
Pezzenti: spedizione assolutamente improvvisata da parte di contadini
provenienti soprattutto dall’Auvergne, animati da predicatori come
Pietro l’eremita. A queste spedizioni fecero da preludio numerosi
eccidi di israeliti, che si cercò di convertire a forza al
Cristianesimo, anche se non è escluso che si intendesse in tal modo
evitare la restituzioni di debiti contratti in precedenza.
Vale comunque la pena ricordare che a tali azioni furono estranei
l’aristocrazia e il clero che, anzi, spesso offrì rifugio agli ebrei
perseguitati. Data l’impreparazione militare di questi volontari,
questi – giunti dopo innumerevoli peripezie in Anatolia – si gettarono
a corpo morto in battaglia sui Turchi Selgiuchidi presso Nicea e
vennero sterminati.
Con la crociata detta “dei nobili”, guidata fa gli altri da Goffredo
di Buglione, i territori che si era promesso di restituire ad Alessio
Comneno non vennero mai restituiti. Fin dal loro arrivo a Gerusalemme
nel 1099, dopo aver proceduto ad un massacro dei musulmani che
abitavano la città, i Crociati si ritagliarono uno stato, di cui venne
eletto capo Goffredo di Buglione, probabilmente a causa del suo
trascurabile rilievo rispetto a Raimondo IV di Tolosa.
In questo contesto papa Urbano II fece l’appello di Clermont (1095),
dove sollecitò la nobiltà francese ad accorrere in aiuto dell’Impero
bizantino minacciato dai turchi selgiuchidi. Più che agli interessi
solidali con la controparte orientale, dovette pesare sulla decisione
del papa la volontà di normalizzare la vita della nobiltà europea
dandole un nuovo obiettivo, dopo i duri scontri col papato stesso
durante la lotta per le investiture e le guerre feudali. La nobiltà si
era infatti ampiamente compromessa appoggiando i nemici della riforma
gregoriana e si stava impoverendo, almeno al livello dei piccoli feudi,
per via della crescita delle autonomia cittadine Comunali. Inoltre la
non-divisibilità dei feudi tra gli eredi lasciava una larga fetta di
nobili armati che potevano cercare fortuna solo con le armi o con la
carriera ecclesiastica.
Con la spedizione i nobili avrebbero temporaneamente alleggerito
l’Europa dalla loro presenza per certi versi scomoda, ed avrebbe
permesso loro di conseguire un buon soldo e bottino per rimettere in
sesto l’economia.
È importante sottolineare come all’epoca non si parlasse ancora come
fine ultimo di riconquista di Gerusalemme e della Terra santa. I luoghi
sacri legati al cristianesimo erano in fatti in genere protetti dagli
stessi musulmani e i pellegrinaggi consentiti (sebbene necessitassero
il pagamento di salvacondotti), anche se nel secolo scorso c’erano
stati alcuni gravi episodi che avevano allarmato la Cristianità: tra
1008 e 1009 il califfo egiziano al-Hakim (semi-divinizzato dai Drusi,
considerati eretici dai musulmani) aveva fatto distruggere la basilica
del Santo Sepolcro e pochi decenni dopo in Palestina si erano insediati
i turchi Selgiuchidi, di recente conversione all’Islam, che oltre ad
aver infastidito ed assaltato diverse carovane di pellegrini cristiani
occidentali, costituivano una concreta minaccia per Costantinopoli.
In questo contesto la volontà del papa aveva a cuore una serie di
obiettivi, non chiaramente definiti, che nella migliore delle ipotesi
sarebbero stati riconducibili all’aiuto da prestare all’Impero
bizantino dopo la disastrosa sconfitta di Manzikert (1071) ad opera del
sultano selgiuchide Alp Arslan, alla ricucitura dello scisma fra
Cristianità greca e Cristianità latina e alla riconquista di
Gerusalemme. Lo stesso imperatore aveva fatto un’offerta di ingaggio di
mercenari a Piacenza, nella primavera del 1095, dove il papa si trovava
a un concilio che avrebbe preceduto di poco quello di Clermont. Il papa
forzò un po’ i termini, considerando l’ingaggio come una richiesta di
aiuto, incanalandola in tutta la serie di obiettivi, per l’Europa
occidentale e per il mondo orientale, elencati poco sopra.
La spedizione inoltre diventava sostitutiva di ogni altra penitenza
in remissione dei peccati confessati, come avvenne in Spagna
(Reconquista spagnola), e fu chiarito che chi fosse caduto in battaglia
avrebbe guadagnato senz’altro il Premio Celeste.
Secondo alcuni storici quindi, l’intenzione dei civili senz’armi e
dei soldati e cavalieri che li accompagnarono durante il viaggio della
prima crociata (1096-1099) doveva essere eminentemente pia e usuale
all’epoca: il pellegrinaggio a Gerusalemme. La croce rossa che i
pellegrini portavano sul mantello stava a significare che erano pronti
a versare il loro sangue per un pellegrinaggio redentore: era
assicurata la remissione di tutti i peccati a coloro che sarebbero
morti sulla strada per Gerusalemme. Fu però un “pellegrinaggio armato”.
Il Papa, per realizzare l’impresa di riconquista della
Siria-Palestina, tenne un discorso decisamente a tinte forti, elencando
i crimini perpetrati ai danni dei cristiani dagli invasori musulmani.
Roberto il Monaco così riporta il discorso di Urbano II:
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«
I Turchi hanno distrutto completamente alcune chiese di Dio e ne hanno
trasformate altre a uso del loro culto. Insozzano gli altari con le
loro porcherie; circoncidono i cristiani macchiando gli altari col
sangue della circoncisione, oppure lo gettano nel fonte battesimale. Si
compiacciono di uccidere il prossimo squarciandogli il ventre,
estraendone gli intestini, che legano a un palo. Poi, frustandole,
fanno ruotare le vittime attorno al palo finché, fuoriuscendo tutte le
viscere, non cadono morte a terra. Altre le legano al palo e le
colpiscono scoccando frecce; ad altri ancora gli tirano il collo per
vedere se riescono a decapitarli con un solo colpo di spada. E che dire
degli orripilanti stupri ai danni delle donne? » |
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(Roberto il Monaco, Historia Hierosolymitana)
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Nella visione di Urbano II, i soldati non avrebbero dovuto fungere
da scorta per i pellegrini, ma essere pellegrini essi stessi. Pertanto
i privilegi e le ricompense spirituali che il pellegrinaggio al Santo
Sepolcro garantiva furono accordati anche ai partecipanti alla
spedizione.
L’appello del papa venne raccolto da una serie di grandi feudatari
europei, che tra 1095 e 1096 si apprestarono a partire con tutto il
loro seguito. La notizia si sparse intanto con stupefacente rapidità e
suscitò entusiasmi anche nei ceti più popolari, che il papa non solo
non aveva previsto, ma che inizialmente non dovette nemmeno gradire. Il
Papa cercò infatti di dissuadere con ogni mezzo i chierici, le donne, i
monaci, i poveri e gli ammalati dal mettersi in viaggio. Ma
l’attrazione esercitata da Gerusalemme fu tale che egli non riuscì a
impedire che partissero anche laici inermi. Si trattò soprattutto di
gente che ascoltava i sermoni di alcuni zelanti predicatori, e anche di
fanatici, di cui non si conosce bene il messaggio.
L’Europa dell’epoca era attraversata da predicatori itineranti e da
agitatori religiosi (come i patarini) che avevano infiammato i ceti
subalterni durante i decenni della riforma contro il clero simoniaco e
concubinario. Con la vittoria della fazione riformatrice e la
stabilizzazione della situazione questi predicatori-agitatori erano
diventati scomodi per il clero, anche perché essi erano rimasti delusi
dagli esiti della riforma stessa, che aveva mancato di far nascere la
Chiesa di “poveri e uguali” sul modello della supposta Chiesa delle
origini.
È probabile quindi che Urbano pensasse solo a una spedizione attuata
dai signori feudali dell’Europa meridionale e continentale ma
l’entusiasmo suscitato nell’opinione pubblica fu tale che a muoversi
per prime furono proprio le componenti di pauperes, raccoltesi in modo
spontaneo e informale intorno ad alcuni di questi predicatori (come
Pietro l’Eremita) e ad alcuni cavalieri (come Gualtieri Senza Averi).
Essi vedevano nella spedizione un ritorno alla Casa del Padre, alla
Gerusalemme celeste.
Queste schiere di poveri pellegrini erano armati sommariamente e
privi di alcuna disciplina militare. Essi partirono tumultuosamente
verso l’Oriente macchiandosi lungo la strada di delitti comuni e di
stragi dirette, soprattutto contro le comunità ebraiche insediate lungo
il Reno e il Danubio.
Pietro l’Eremita (Pietro d’Amiens) era un predicatore popolare che,
per il fatto di girare coperto di stracci e in sella a un umile asino,
s’era guadagnato la fama di “eremita”. Giunse il 12 aprile 1096, dopo
aver percorso le terre centrali del Berry, il territorio di Orléans e
di Chartres, la Normandia, il territorio di Beauvais, la Piccardia, la
Champagne, la valle della Mosella e infine la Renania. Era un
personaggio non inquadrato nel sistema ecclesiastico, ma dotato di
grande carisma trascinatore ed esercitava un’influenza enorme sulla
folla.
Con un grosso seguito di francesi e preceduto dal suo motto
tardo-latino Deus le volt (”Dio lo vuole”), Pietro giunse a Colonia e
si unì a Gualtiero Senza Averi, alla testa di un gruppo alquanto più
esiguo di contadini e di cavalieri senza risorse economiche, partendo
subito dopo Pasqua alla volta di Costantinopoli.
Nel marzo 1096, assai prima della data che il papa aveva previsto,
gente d’ogni risma – poveri, preti, monaci, donne, qualche soldato, ma
pochissimi signori e principi – si mise agli ordini di Pietro e si pose
in viaggio. Gualtieri, giunto in Ungheria (di recentissima
cristianizzazione), ricevette il permesso di transito da re Koloman,
entrando in conflitto tuttavia con la locale popolazione a Semlin,
ultima piazzaforte ungherese prima di entrare nel territorio imperiale
bizantino. Giunto a Niš il 18 agosto, Gualtieri proseguì nel suo
viaggio verso Sofia, Filippopoli e Adrianopoli, per giungere infine a
Costantinopoli il 20 luglio sotto stringente scorta dei Peceneghi (che
fungevano da polizia militare bizantina).
Le truppe di Pietro l’Eremita raggiunsero a loro volta Semlin,
presero d’assalto la città e vi massacrarono 4.000 correligionari
ungheresi, secondo una testimonianza a causa delle vesti appartenenti a
pellegrini al seguito di Gualtieri e che erano stati uccisi mentre
s’abbandonavano a razzie e violenze varie. Fu evidente infatti, in
entrambe queste schiere, la totale inadeguatezza dell’apparato
logistico predisposto: la mancanza di vettovagliamenti portò pertanto
gli uomini di Gualtieri e di Pietro a razziare, armi in pugno, quelle
contrade, ottenendone un reazione logica e non meno violenta. Per buona
misura, gli uomini di Pietro investirono e saccheggiarono anche
Belgrado, abbandonata dai suoi abitanti che trovarono rifugio in
territorio bizantino, sull’altra sponda della Save.
Questa accozzaglia si presentò infine davanti a Costantinopoli il l°
agosto 1096, quindici giorni prima della data fissata per la partenza
del Legato Pontificio Le Puy. Nella capitale bizantina, l’imperatore
Alessio I consigliò loro dapprima di aspettare la crociata “dei
baroni”, ma di fronte ai loro eccessi, fece loro attraversare il
Bosforo il 6 agosto e assegnò loro la piazzaforte di Kibotos (Civitot).
In settembre essi razziarono i dintorni di Nicea e uccisero non
pochi dei suoi abitanti (esclusivamente cristiani) e una banda,
condotta da un nobile italiano di nome Rinaldo, riuscì a impadronirsi
del castello di Xerigordon. Il 29 settembre, un contingente inviato dal
sultano Qilij Arslan riprese tuttavia il controllo di Civitot.
Il 21 ottobre 1096, stanchi di attendere, i seguaci di Pietro si
diressero di nuovo alla volta di Nicea, ma vennero sterminati non
appena usciti dal campo di Civitot. Gualtieri-senza-averi, il conte di
Hugues di Tubingue e Gautiero di Teck persero la vita in questo
scontro. Su 25.000 uomini, solo 3.000 riuscirono a riguadagnare
Costantinopoli. Si amalgamarono a quel punto con le forze condotte dai
baroni, dando vita ai terribili Tafur.
Un’altra “crociata popolare” fu la cosiddetta “crociata tedesca”:
seguendo l’appello pontificio alla crociata, alcuni signori tedeschi,
primi fra tutti un certo Volkmar con circa 10 mila seguaci e un
discepolo di Pietro l’Eremita di nome Gottschalk (con più di 10 mila
uomini), partirono verso le aree balcaniche per seguire lo stesso
itinerario terrestre prescelto da Pietro e da Gualtiero prima di loro,
mentre il conte Emich von Leiningen (noto per aver espresso una certa
predisposizione agli atti di violento brigantaggio) raccoglieva in
Renania adesioni per il medesimo fine.
Malgrado gli ordini dell’imperatore germanico Enrico IV vietassero
di operare alcuna azione ostile nei confronti delle comunità ebraiche
(considerate però infedeli alla pari dei musulmani), l’esercito di
Emich si abbandonò a un vero e proprio pogrom, forse per evitare di
restituire gli interessi concordati per alcuni prestiti da lui
sollecitati e ottenuti dalle comunità israelitiche. Vale la pena
rammentare che in quel periodo era assolutamente vietato richiedere
interessi per prestiti di denaro e come anche il minimo tasso preteso
fosse considerato usura, in grado di comportare automaticamente la
scomunica a carico del prestatore e l’interdizione per la città che si
fosse dedicata al cosiddetto “commercio del denaro”.
Tra il 20 e il 25 maggio a Worms il massacro della locale comunità
israelitica fu portato a compimento, malgrado la difesa esercitata
dalla nobiltà e del clero in favore degli ebrei stessi. Altrettanto
avvenne poco dopo a Magonza, dove circa un migliaio di ebrei furono
trucidati. Meno drammatica fu invece l’aggressione a Colonia in quanto
gli ebrei, allertati dalle notizie ricevute, avevano provveduto a
nascondersi. Una coda persecutoria si registrò peraltro a Treviri,
Metz, Neuss, Wevelinghofen, Eller e Xanten.
Volkmar cercò di emulare Emich a Praga, ma in Ungheria egli si trovò
a subire la durissima reazione di re Colomanno d’Ungheria, che
affrontò, distrusse e disperse le forze tedesche che avevano osato
percorrere in armi il suo territorio e tentato di colpire i “suoi”
ebrei. Gottschalk intanto si era spostato a Ratisbona per effettuarvi
la sua personale strage di “infedeli” e, dopo aver cercato di resistere
all’ordine regio di disarmo dei suoi uomini, assistette impotente al
massacro che ne seguì.
Emich intanto, di fronte al rifiuto del permesso di transito
decretato per le sue truppe da Re Colomanno, impegnò con le truppe del
sovrano ungherese un duro combattimento ma dovette anch’egli subire una
dura sconfitta.
La “crociata dei nobili”, che qualche storico definisce anche
“crociata dei baroni” (anche se nessun barone ne fece parte), riuscì a
stabilire gli “Stati Crociati” di Edessa, Antiochia, Gerusalemme e
Tripoli in Palestina e Siria.
All’impresa, affidata dal papa alla guida spirituale di Ademaro di
Monteil, vescovo di Le Puy, aderirono alcuni nomi famosi
dell’aristocrazia feudale europea:
* Ugo, francese, futuro conte di Vermandois (1057-1101), figlio
cadetto di re Enrico I di Francia e fratello minore del re Filippo I;
* Stefano di Blois, francese, cognato di Roberto II, duca di Normandia, per averne sposato la sorella Adele;
* Roberto, fiammingo, conte di Fiandra;
* Roberto II, normanno, duca di Normandia, figlio di Guglielmo il Conquistatore;
* Raimondo di Saint-Gilles, provenzale, quarto conte di Tolosa e marchese di Provenza che guidava il drappello di provenzali;
* Goffredo di Buglione, germanico, duca della Bassa Lorena e, come tale, vassallo dell’Imperatore germanico Enrico IV;
* Baldovino di Boulogne, fratello germano di Goffredo;
* Eustachio III, germanico, conte di Boulogne e fratello di Goffredo;
* Boemondo I d’Antiochia, normanno-italico, figlio di Roberto il Guiscardo.
A questi e altri nobili vanno sommati i rispettivi seguiti di
vassalli e subordinati; inoltre tra le file della spedizione “dei
nobili” viaggiavano anche dei comuni pellegrini inermi.
Ugo di Vermandois partì verso il 15 agosto e, non senza vanità, scrisse all’imperatore Alessio I di preparargli un’accoglienza degna di lui.
Si imbarcò a Bari alla volta di Durazzo, per raggiungere Costantinopoli
percorrendo l’antica via Egnatia, ma le navi incapparono in una
burrasca e si dispersero. Raccolto da Alessio I, fu considerato un
ospite, ma posto sotto attenta anche se discreta sorveglianza.
Goffredo di Buglione, che aveva seguito la via di Pietro l’Eremita,
fu il secondo ad arrivare. Aveva attraversato l’Ungheria, che dopo i
primi “passaggi” era già in allarme, e per tutto il tempo fu obbligato
a lasciare in ostaggio suo fratello Baldovino. Giunto a Costantinopoli
si accampò sotto le mura. Nacque una certa ostilità fra i suoi e gli
uomini dell’imperatore bizantino, che era accusato di tenere
prigioniero Ugo.
Boemondo di Taranto arrivò in
aprile. Ostile segretamente ad Alessio I, si era fatto crociato, «per
opera dello Spirito Santo» dicono i testi, quando si stavano
avvicinando i crociati normanni di Roberto. Non era stato solo per
devozione: Boemondo era un uomo forte, astuto, ambizioso e frustrato:
suo padre, Roberto il Guiscardo, dopo essersi risposato, gli aveva
preferito il fratellastro, Ruggero Borsa. Ambiva ad avere una sua signoria
a scapito dell’Imperatore bizantino, sul quale dodici anni prima aveva
già riportato una vittoria. Fine conoscitore della mentalità bizantina
e musulmana e dei loro metodi, egli sapeva di essere indispensabile.
Per rassicurare il diffidente Alessio I, Boemondo evitò che le sue
truppe operassero il minimo saccheggio.
Raimondo di Saint-Gilles era uno dei più potenti signori. Aveva 55
anni e possedeva una dozzina di contee; può darsi che avesse
partecipato alla Reconquista. Già prima del Concilio di Clermont,
il papa vide probabilmente in lui il più indicato capo militare della
crociata, anche se non procedette mai alla designazione di un
comandante laico, limitandosi a quella di una guida spirituale, nella
persona del suo Legato Pontificio, il vescovo Ademaro Le Puy. In
autunno, dopo aver lasciato al figlio il governo delle terre, il conte
partì insieme con Ademaro, passando per l’Italia settentrionale e
l’inospitale costa dalmata. Giunto nelle terre dell’impero, fu scortato
dalle truppe peceneghe, che fungevano da polizia militare bizantina e
lo misero sotto sorveglianza.
Roberto di Normandia, Roberto di Fiandra e Stefano di Blois
lasciarono le loro terre nell’autunno del 1096. Passando per Roma, Bari
e per la via Egnatia, arrivarono a Costantinopoli nell’aprile-maggio
del 1097. A ognuno l’Imperatore bizantino Alessio richiese nel 1096 a
Costantinopoli un giuramento di vassallaggio che li impegnava a restituire all’Impero bizantino gli eventuali frutti dell’impresa.
Goffredo compì alcuni saccheggi in risposta al taglio dei viveri
dell’Imperatore, ma alla fine il 20 gennaio 1097 cedette e si
sottomise; Boemondo fu ricevuto dall’Imperatore il 10 aprile. Secondo
Anna Comnena, Boemondo avrebbe chiesto, in cambio del sostegno
militare, il titolo di «Gran Domestico d’Oriente» (comandante generale
delle truppe bizantine in Oriente) e una vasta porzione di territorio
dietro ad Antiochia. Alessio si sarebbe mostrato reticente, pur non
lesinandogli denaro e rifornimenti. Tuttavia, Boemondo gli giurò
fedeltà, con la promessa di restituirgli tutti i territori conquistati
dai musulmani che fossero stati ripresi sotto il proprio controllo da
lui e dagli altri Crociati. Ma suo nipote Tancredi,
si rifiutò. Anche Raimondo si rifiutò nettamente di giurare fedeltà
affermando di essere pronto a riconoscere come suo signore solo Colui
per il quale aveva abbandonato patria e beni. Si arrivò ad un
compromesso in base al quale Raimondo giurò che non avrebbe attentato
all’onore e alla vita dell’imperatore.
Infine Roberto di Normandia, Stefano di Blois e Roberto di Fiandra non si mostrarono riluttanti a giurare fedeltà all’Imperatore.
Tra 1096 e 1097 dunque tutte le truppe erano convogliate a
Costantinopoli e non era ancora chiaro quale sarebbe stato lo scopo
della missione: la riconquista dell’Anatolia, la presa dei porti della
Siria e, nella migliore delle ipotesi, l’arrivo fino alla Palestina. A
spingere verso una conquista vera e propria di Gerusalemme, idea che
dovette maturare gradualmente, furono forse anche i “poveri pellegrini”
che si erano uniti alla marcia dei nobili e che davano al loro viaggio
un carattere apocalittico.
In Anatolia le truppe barionali e i pellegrini marciarono in colonne
che a tratti si riunivano. Sconfissero ripetutamente le truppe dei
turchi selgiuchidi, che evidentemente dovevano aver sottovalutato la
pericolosità di questi nuovi arrivati, giunti in piena estate senza la
minima cognizione climatologica e geografica della regione. Agli occhi
dei signori locali la marcia sotto il sole cocente della pianura
anatolica doveva essere sembrata una pazzia, per questo sottovalutata:
l’elemento sorpresa fu certamente una delle carte che aiutarono la
vittoria crociata.
Il 21 maggio 1097 i crociati sconfissero Qilij Arslan ibn Sulayman,
conquistando la sua capitale nell’assedio di Nicea. A Dorileo
(Eskişehir) e a Heraclea (Ereğli) i crociati colsero ulteriori
vittorie. Penetrarono poi in Siria con il grosse delle truppe, puntando
su Tarso e le Porte Cilicie, mentre un distaccamento guidato da
Baldovino e da Tancredi, nipote di Boemondo, si diresse verso Edessa,
governata dall’armeno T’oros (Theodorus). Questi accolse Baldovino e,
non avendo eredi, addirittura lo adottò, ma nel marzo 1098 una
congiura, ispirata forse dallo stesso Baldovino, lo portò a morte
violenta. Tradendo il suo impegno di vassallatico, Baldovino non
restituì la città ad Alessio I ma elesse la città e il suo territorio a
sua personale Contea.
Il grosso dell’esercito crociato poneva intanto Antiochia sotto
assedio e attaccava i locali contingenti selgiuchidi, catturando la
città sette mesi dopo, grazie a Boemondo ed al tradimento d’un
armeno-musulmano. Boemondo sgominò poi le forze inviate dall’atabeg di
Mossul e massacrò tutti i turchi della città conquistata, salvo un
gruppetto che scampò nella cittadella (estate 1098).
Anche Boemondo violò il suo giuramento di vassallatico
all’Imperatore, adducendo come giustificazione il preteso (ma
inesistente) infido atteggiamento bizantino, cosicché la città di
Antiochia e il suo contado furono da lui erette a proprio principato.
Alla morte, il 1 agosto 1098, di Ademaro di Le Puy, massimo tramite con
l’Imperatore bizantino e attivo fautore di una corretta politica fra
cristiani di rito greco e latino, seguì la cattura da parte del corpo
principale dei crociati di Maʿarrat al-Nuʿmān (11-12 dicembre) con
l’eccidio totale della popolazione musulmana.
Le conquiste furono repentine anche perché seppero (inconsciamente)
sfruttare le rivalità e ostilità tra i vari potentati musulmani della
zona: infatti nel Vicino Oriente correva il confine indeterminato tra
il califfato ismailita del Cairo e quello sunnita di Baghdad; inoltre
gli emirati di Anatolia e di Siria erano ostili tra loro.
Oltre all’elemento sorpresa giocò a favore dei crociati anche la
mancanza di una tattica unitaria, senza un chiaro obiettivo: i
musulmani erano infatti abituati a rispondere alle periodiche offensive
dell’esercito bizantino e non sapevano come comportarsi con questi
gruppi indisciplinati di cristiani venuti da Occidente. Di fatto si
stava assistendo a un fenomeno del tutto nuovo: un pellegrinaggio
armato verso Gerusalemme.
Il 13 gennaio 1099 Raimondo di Tolosa si diresse verso Gerusalemme e
attaccò Bostrys, Byblos, Beirut, Sidone, Tiro, Acri, Haifa, il Monte
Carmelo, Cesarea, Ramla (antico capoluogo del governatorato islamico
fin dall’età califfale omayyade) che fu sgomberata da quasi tutta la
popolazione musulmana e, infine, Betlemme.
Il 7 giugno il conte iniziò l’assedio di Gerusalemme, in quel
momento sotto il controllo del fatimide Iftikhār al-Dawla. I crociati
erano ormai induriti dal viaggio, inferociti dalle privazioni e in
preda a un entusiasmo fanatico che si rivelò positivo sotto il profilo
militare ma negativo sotto quello morale.
Il 15 luglio la conquista della Città Santa fu realizzata grazie ad
alcune torri d’assedio costruite col legname ottenuto dallo
smantellamento delle navi dei Crociati genovesi di Guglielmo Embriaco,
Goffredo di Buglione entrò fra i primissimi nella città coi suoi
Lotaringi.
La guarnigione fatimide si rifugiò nella cittadella (da cui poté
uscire sana e salva poco più tardi, dopo aver pagato un fortissimo
riscatto) mentre tutti gli altri musulmani, senza eccezione alcuna di
sesso e d’età, furono massacrati insieme agli ebrei della città,
inutilmente ammassatisi nella sinagoga. Un analogo trattamento sarebbe
forse toccato anche ai cristiani orientali, evacuati preventivamente
dal governatore musulmano per paura di tradimenti, che i crociati
probabilmente non avrebbero nemmeno saputo riconoscere.
La città fu poi ripopolata dai cristiano-orientali e dai
corregionali siriani e armeni, mentre a musulmani ed ebrei fu proibito
di soggiornarvi.
Conquistata Gerusalemme, i crociati negli anni successivi
rafforzarono la propria posizione conquistando l’area circostante la
città, fino a controllare una zona che andava dal Mar di Levante al Mar
Rosso, al corso del Giordano alla Siria. Tutta la regione venne
organizzata con il sistema del feudalesimo, con alcuni principati
indipendenti tra loro (contea di Edessa, principato di Antiochia,
contea di Tripoli, principato di Tiberiade e Oltregiordano, contea di
Giaffa e di Ascalona) ed alcuni feudi minori ad essi sottomessi. Sul
piano formale ciascuno di questi Stati accettava la superiorità di un
sovrano che teneva corte a Gerusalemme.
Giuridicamente parlando la situazione del Regno di Gerusalemme era
piuttosto spinosa: formalmente, secondo il diritto riconosciuto dai
cristiani, i territori appartenevano all’imperatore bizantino, ma egli
non era in buoni rapporti con i crociati ed era inoltre uno scismatico;
si pensò allora di offrire la corona al papa, che avrebbe potuto
proclamarsi signore feudale di quelle terre, come aveva fatto per
l’Inghilterra e per la Sicilia, ma un’azione del genere avrebbe
sicuramente peggiorato ulteriormente le già tese relazioni col
basileus. Si decise allora di offrire la corona a uno dei crociati che
avevano partecipato alla spedizione.
La corona fu offerta a Raimondo – i cui domini costituivano uno dei
tre massimi feudi di Francia col ducato d’Aquitania e il ducato di
Normandia – ma egli la rifiutò per il desiderio dei suoi guerrieri di
tornare al più presto in patria avendo assolto al votum crucis
crociato. Inoltre l’energico Raimondo aveva subito il veto dei
normanni. Per accordare tutti era chiaro che si sarebbe dovuto
scegliere una personalità non di spicco e si ripiegò allora su Goffredo
da Buglione, che i cronisti dell’epoca ci ritraggono come valoroso ma
anche tormentato, ripiegato su sé stesso. Egli rifiutò di assumere un
titolo di “re” di un territorio dove Cristo aveva conosciuto il
supplizio e la morte, accettando invece la titolatura più modesta di
Advocatus Sancti Sepulchri (Difensore [laico] del Santo Sepolcro),
dando così vita al terzo e più prestigioso Stato crociato di Terra
Santa. Advocatus era un titolo che un laico prendeva nella protezione
di beni episcopali, per cui la scelta sembrava sottintendere
l’appartenenza sostanziale della Terrasanta alla Chiesa di Roma.
Goffredo si batté ancora valorosamente nell’estate del 1099, durante
le conquiste del porto di Giaffa e di Ascalona, ma perì nel 1100 a
Gerusalemme. Suo fratello Baldovino non perse tempo: meno tormentato
spiritualmente di Goffredo e più energico, scese dal suo feudo di
Edessa e si fece incoronare re di Gerusalemme senza gli scrupoli
dimostrati dal fratello. Fu l’inizio vero e proprio del Regno di
Gerusalemme.
L’ultimo Stato crociato a costituirsi in Terra Santa fu quello della
Contea di Tripoli. Qui il governo era affidato all’epoca al qadi Fakhr
al-Mulk, della tribù dei Banū ʿAmmār, favorevole a un accordo coi
Crociati che salvaguardasse la città. Grazie a una flotta genovese,
Raimondo strappò Tortosa ai Banū ʿAmmār e pose l’assedio a Tripoli,
infliggendo con solo 300 cavalieri un’incredibile rotta ai difensori
che, coi loro 3000 uomini, aiutati da altri 4000 soldati provenienti da
Damasco e Hims, corroborarono nei musulmani di quella parte di mondo
l’idea dell’invincibilità degli uomini venuti dall’Europa. Proprio
l’esiguità degli uomini a sua disposizione impedì tuttavia al conte di
Tolosa di superare le difese murarie di Tripoli.
A fine 1103, con l’aiuto bizantino, fu completata la costruzione del
castello di Monte Pellegrino che servì a stringere d’assedio Tripoli,
rifornita però dal mare grazie alla flotta fatimide.
Raimondo morì di lì a poco (1105) in seguito a una ferita
fortuitamente procuratasi l’anno prima ed il problema della sua
successione si risolse con difficoltà solo più tardi, con l’assunzione
del potere da parte del figlio naturale Bertrando.
Fonte: http://www.mondoraro.org
Qui la storia delle altre crociate: http://www.mondoraro.org/category/storia/le-crociate/