La metafora del "pane della vita" non ci riconduce soltanto alla Parola di Gesù, ma ci porta direttamente alla visione della sua carne, cioè del suo corpo spezzato per noi sulla croce. È quindi una metafora che ci parla di nutrimento, ma anche e soprattutto di salvezza. In entrambi i sensi Gesù ci ricorda di essere lui il pane "vero", perché dal cielo non sono scesi né scenderanno altri "pani" a saziare la nostra fame spirituale.­ 


È Gesù il vero pane donato da Dio agli uomini

 
"Gesù sapeva bene quello che stava per fare" (Gv 6:6).

Questo fare di Gesù non si limita alla moltiplicazione dei pani, ma più profondamente si riferisce a ciò di cui il miracolo è segno.

Affinché la moltitudine abbia la vita, Gesù darà molto più dei pani ottenuti prodigiosamente ed anche della stessa Parola udita dal Padre (cioè un insegnamento): darà la sua stessa persona, come spiegherà nel discorso che segue:

"...il pane che io darò è la mia carne, che darò per la vita del mondo" (Gv 6:51).

In questo capitolo Gesù parla di Dio ("Non Mosè vi ha dato il pane che viene dal cielo, ma il Padre mio vi dà il vero pane che viene dal cielo"), di sé stesso ("Io sono il pane della vita") e dell'uomo, sempre alla ricerca di ciò che lo può soddisfare ("Signore, dacci sempre di codesto pane").

Questa catechesi consiste, perciò, nel presentare i grandi temi della Bibbia, vissuti dal popolo dell'Antico Testamento e ripresi nella predicazione di Gesù, nella quale trovano il loro pieno significato e la loro definitiva realizzazione.

Per esprimere tutto ciò, l'evangelista Giovanni usa l'aggettivo "vero" (Gv 6:32).

Questo termine ha un significato molto profondo: supera la semplice caratteristica di aggettivo e acquista un intenso valore teologico.

Esso indica che tutta la Parola è orientata verso Gesù e in lui solo acquista il significato definitivo.

"Su di lui il Padre, cioè Dio, ha apposto il proprio sigillo" (6:27), il sigillo indicava la proprietà. In senso simbolico esprime il concetto di appartenenza di una persona a un'altra: questo avviene tra il Padre e il Figlio. Quello che Gesù fa e dice sono le azioni e le parole del Padre.

Egli guida i suoi ascoltatori a riconoscere come segno definitivo della sua presenza il "vero" pane, che è lui.

Gesù guida i suoi ascoltatori alla vera comprensione della sua persona, la persona di Gesù non va valutata dai miracoli ("Quale segno miracoloso fai, dunque, perché lo vediamo e ti crediamo?" v. 30) e neppure dal fascino della sua persona, ma va compresa nella fede.

Anche oggi l'uomo non può accostarsi a Gesù o porsi alla ricerca di lui solo per soddisfare la fame e la sete materiale ("Voi mi cercate, non perché avete visto dei segni miracolosi, ma perché avete mangiato dei pani e siete stati saziati", v. 26), o per ricevere un miracolo o una grazia particolare.

È necessario accostarsi a Gesù credendo che è nella sua persona che "il Padre dà il vero pane che viene dal cielo" (v. 32) e che è Lui "il pane che è disceso dal cielo" (v. 38), che dà la vita della grazia e della gloria nel cielo.

Chi crede in lui ed a lui sta unito, possiede la fonte di ogni bene e l'amore di Cristo lo solleverà al di sopra di tutti i timori.

La gente visto il segno che Egli aveva compiuto vuol venire "a rapirlo per farlo re" (Gv 6:15).

Poiché il segno dei pani rievoca, sotto certi aspetti, il miracolo della manna, la folla riconosce in Gesù "il profeta" promesso da Mosè, quel profeta-Messia che, secondo le attese degli Ebrei dominati dai Romani, doveva liberarli, come Mosè li aveva liberato dalla schiavitù d'Egitto, e vorrebbe che proprio nei giorni di Pasqua, in cui si ricordava la liberazione dall'Egitto, egli inaugurasse il suo regno e cominciasse a cacciare i Romani.

Gesù avverte, nell'entusiasmo della folla, la confusione tra l'aspetto escatologico e quello politico, perciò non si lascia "prendere", ma sarà lui, quando sarà giunta l'ora, a lasciarsi "condurre" alla morte per diventare "pane" per la moltitudine.

Ora egli si sottrae all'entusiasmo della folla che lo distoglierebbe dalla sua missione e si ritira sulla montagna, da solo, per riprendere il contatto con il Padre.

 

Il pane che dà la vita

Il giorno dopo la folla ritrova Gesù a Capernaum dove supponeva, o seppe poi, che si era recato. Gesù a questo punto abbandona ogni riserva e svela pienamente il significato del "segno" del pane che egli ha offerto loro.

Non è un pane fisico ma "un pane disceso dal cielo" (v. 38), un pane diverso che sfama per sempre l'uomo mantenendolo in vita per l'eternità. Anzi, quel pane è una persona con la quale entrare in comunicazione, è la persona stessa del Figlio di Dio: "Io sono il pane della vita" (v.48).

Scatta, allora, la reazione incredula e sarcastica degli ascoltatori: "Non è costui Gesù, il figlio di Giuseppe, del quale conosciamo il padre e la madre? Come mai ora dice: «Io sono disceso dal cielo?»".

Gesù li riprende per i loro mormorii, ma non risponde.

Ancora una volta si appella alla stessa relazione fra le sue pretese e lo scopo del Padre:

"Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato" (v. 44), per comunicare loro una verità di vitale importanza, ben più importante di qualunque risposta ai loro mormorii: soltanto credendo "in lui" essi avrebbero potuto ottenere la vita eterna.

Dopo aver risposto all'obiezione dei Giudei, Gesù ritorna sul pensiero già espresso al v. 40 "Chi crede in me ha la vita eterna" (v. 47), affermando la superiorità di questo pane celeste rispetto alla manna, che non solo non poteva far nulla per l'anima, ma non poteva nemmeno salvare dalla morte quelli che ne mangiarono nel deserto, contrariamente al pane meraviglioso che dà la vita eterna.

Pane che non è per un popolo solo, ma per tutti gli uomini, siano essi Ebrei o Gentili:

"Poiché questa è la volontà del Padre mio: Chiunque contempla (conosce) il Figlio e crede in lui, abbia vita eterna, e io lo risusciterò nell'ultimo giorno" (v. 40).

 

Carne e sangue

Gesù, abbandonata la figura del pane, passa solennemente a dichiarare che il pane promesso è la sua stessa carne (v. 51), che egli dona in sacrificio, quale espiazione per il peccato del mondo.

"Perciò - dice Gesù - se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete vita in voi. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha vita eterna; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno" (vv. 53-54).

I Giudei non comprendono la metafora del mangiare, prendono alla lettera il messaggio figurato, simbolico, allusivo e preparatorio della futura istituzione della Cena del Signore e ne sono indignati.

Quando poi il Signore Gesù aggiunge che per ottenere la vita eterna devono pure bere il suo sangue, inorridiscono.

Da sempre Dio aveva vietato di "mangiare carne con la sua vita, cioè con il suo sangue" (Ge 9: 4); solo nel Levitico questa legge ricorre 17 volte.

Dio aveva fatto del sangue un mezzo di espiazione del peccato, prescrivendo che fosse posto sull'altare: era sacro, perciò l'uomo non lo poteva mangiare.

Quel sangue di animali era figura del sacrificio di Cristo sulla croce (Eb 9: 11) offerto "una volta sola per portare; i peccati di molti" (Eb 9: 28).

Purtroppo le parole che i Giudei hanno rifiutato come assurde e orribili sono state accettate da molti che le usano a sostegno della dottrina della transustanziazione, cioè del dogma decretato dal papa Innocenzo III° nel 1215, col quale si afferma che Gesù Cristo si rende presente nell'Eucarestia mediante la conversione della sostanza del pane e del vino nel suo corpo (carne) e nel suo sangue, dopo la consacrazione fatta dal sacerdote, che vi partecipa in modo corporale e carnale, non capendo che il mangiare e il bere sono solo dei simboli che devono portarci alla realtà di ciò che rappresentano: il pane è l'emblema del suo corpo rotto, ed il vino è l'emblema del suo sangue sparso.

Il sacrificio di Cristo, simboleggiato nel pane e nel vino rappresenta il prezzo con il quale i credenti sono stati "comprati a Dio" (1Co 6: 20). È comprensibile che i Giudei non abbiano compreso il senso di queste parole del Signore Gesù che possono essere capite solo alla luce del suo successivo sacrificio sulla croce.

Se il Signore avesse voluto indicare il miracolo della transustanziazione avrebbe detto: "Fate questo in sacrificio di me" e non "in memoria di me" (1Co 11: 23-26; Lu 22: 20).

"Il Signore Gesù nella notte che fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso grazie, lo ruppe e disse: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me. Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga»".

La Cena, quindi, è il banchetto nel quale la comunità dei credenti si trova riunita nel ricordo della morte di Cristo e nella gioiosa attesa dell'avvento del suo regno, del quale quella morte li ha resi eredi.

Nella Cena vi è solo la presenza spirituale di Cristo.

Molti discepoli di Gesù ritennero il suo discorso difficile da accettare: "Questo parlare è duro" (v. 60) e se ne andarono.

La durezza di quella "parola" sta nel fatto ch'essa indica una sola via di vita, ch'essi non accettano. Egli non li trattiene poiché vuole che chi lo segue lo faccia nella più grande libertà, "Abbiamo la libertà di accostarci a Dio, con piena fiducia, mediante la fede in lui (Cristo)" (Ef 3: 12).

 

Un pane che non si mangia in privato

L'incredulità che le parole di Gesù suscitano nei Giudei è quella stessa con cui ci misuriamo tutti i giorni.

Accettare Gesù come vero nutrimento spirituale è un percorso coinvolgente e faticoso, perché non può essere scelta superficiale che lascia tutto uguale, ma è un cammino di giustizia e condivisione che trasforma gli uomini e il loro mondo.

È questo il segreto del "pane" che ci propone Gesù: non lo si può mangiare da soli, né se si è divisi e nemici.

Eppure, condividere il pane non è una semplice suddivisione aritmetica, la giustizia non è uguaglianza formale: è rispetto di ciascuno, della sua unicità, dei suoi bisogni, della sua storia.

Spezzare il pane significa cambiare il cuore, far morire il vecchio uomo dalle molte ostinazioni e chiusure per far vivere l'uomo nuovo, che parla, pensa e ama come il Signore, il quale si è fatto come noi perché noi diventassimo come lui. Significa crescere e far crescere nella comunione: in famiglia, là dove l'incontro va ritessuto ogni giorno attraverso i sentieri ardui del dialogo, del perdono, dell'amore; nella comunità e nella vita sociale, là dove la passione per la comunione diventa gioiosa testimonianza di servizio, di rispetto per la persona, di attenzione alla fatica dei deboli, di misericordia paziente.

 

Parole di vita eterna

Il Gesù del "pane moltiplicato" viene cercato.

Il Gesù del "pane della vita" viene abbandonato. Ciò che sorprende, nel nostro brano è che sono proprio i discepoli di Gesù a rifiutare le parole del suo discorso sul pane della vita.

Nei vangeli i discepoli sono coloro che hanno condiviso tutto con Gesù. Dall'anonimato della folla si sono accostati a lui instaurando un rapporto personale di amicizia, di rispetto e di accoglienza di ogni sua parola.

Interrompendo ora questo rapporto essi diventano l'immagine di tante persone che, per lungo tempo, hanno seguito in tutto la persona e gli insegnamenti del divino Maestro.

Poi, di fronte all'esplosione del permissivismo, illudendosi di addomesticare il cristianesimo, hanno dichiarato "duro" e "inaccettabile" il suo messaggio evangelico e certe sue­ esigenze per l'uomo e la società del nostro tempo (l'indissolubilità del matrimonio, la sacralità della vita fin dal concepimento, ecc.).

L'insegnamento di questo brano consiste, perciò, nell'attualità degli atteggiamenti dell'uomo, perché il rischio di rifiutare la sua parola è sempre presente.

Non importa se si tratta di un rifiuto aperto o di un rifiuto che si tenta di giustificare con la scusa dei tempi che cambiano.

Alla domanda sempre attuale di Gesù:

"Non volete andarvene anche voi?" (v. 67) occorre far proprio l'atteggiamento di fede di Pietro che, a nome dei dodici, dice:

"Signore, da chi andremmo noi? Tu hai parole di vita eterna; e noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Santo di Dio" (vv. 68-69).

Ossia:

"Tu sei colui che è stato eletto, santificato e consacrato a stabilire il regno di Dio.
Tu solo, o Signore, hai parole che producono vita eterna e saziano tutti i nostri desideri.

Tu solo hai promesso: «A chi vince io darò da mangiare dell'albero della vita, che è nel paradiso di Dio» (Ap 2:7)".

Noi non possiamo vivere senza di te, le nostre anime hanno bisogno di te, perché "non di pane soltanto vivrà l'uomo, ma di ogni parola che perviene dalla bocca di Dio" (Mt 4: 4).

Che anche noi possiamo dire come il profeta Geremia:

"Appena ho trovato le tue parole, io le ho divorate; le tue parole sono state la mia gioia, la delizia del mio cuore" (Gr 15: 16).

Sia ringraziato Dio che, malgrado tutto, la sua voce non si è affievolita ed il suo sacrificio è ancora oggi valido per gli uomini che vorranno andare a lui per essere saziati di verità e di giustizia, per essere salvati dai loro peccati, per essere riconciliati con Dio Padre.

Perciò, come dice lo Spirito Santo:

"Oggi se udite la sua voce non indurite i vostri cuori" (Eb 3:7).

Fonte: http://www.ilcristiano.it/

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Inviato da alex il

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