Negli ultimi trent'anni la malattia da curare era la depressione?
Per l'avvenire sarà il narcisismo, una patologia digitale, della rivoluzione tecnologia. Una patologia invalidante, in una isteria moderna, capace di compromettere rapporti sociali, lavoro, sentimenti. No, certamente non "demoniziamo" questo strumento ma, come sempre, è l'uso delle cose, dono del Creatore, che ne compromette il buon senso.
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Corruzione estrema degli ultimi tempi
Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno tempi difficili, perché gli uomini saranno amanti di se stessi, avidi di denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, scellerati, senza affetto, implacabili, calunniatori, intemperanti, crudeli, senza amore per il bene, traditori, temerari, orgogliosi, amanti dei piaceri invece che amanti di Dio, aventi l'apparenza della pietà, ma avendone rinnegato la potenza; da costoro allontanati. Nel numero di questi infatti vi sono quelli che s'introducono nelle case e seducono donnicciole cariche di peccati, dominate da varie passioni, le quali imparano sempre, ma senza mai pervenire ad una piena conoscenza della verità.
Ora come Ianne e Iambre si opposero a Mosè, così anche costoro si oppongono alla verità; uomini corrotti di mente e riprovati quanto alla fede. Costoro però non andranno molto avanti, perché la loro stoltezza sarà manifestata a tutti, come avvenne anche per quella di quei tali.
2° Timoteo 3

selfy

alex

Riporto interessante articolo dell'amico Patrizio Paolinelli
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Figlio dell’autoscatto, parente stretto della foto ricordo e maldestro epigono del ritratto il selfie dilaga nel mondo delle immagini anche grazie alla straordinaria amplificazione di cui gode sui social network. Il fenomeno è stato analizzato da diversi punti di vista. Sul piano psicologico sembra ci sia un certo accordo nel ritenerlo: a) l’ennesima attività finalizzata a favorire il narcisismo di massa; b) un modo di coltivare l’autostima sperando che l’immagine pubblicata sui social ottenga parecchi “mi piace” e commenti favorevoli. Naturalmente non tutti scattano selfie per vanità, colmare un vuoto interiore o risolvere la frustrazione di non essere nessuno in una società mediatizzata che incita ossessivamente a essere qualcuno. Più semplicemente i selfie possono costituire un modo per raccontare la propria biografia o un’esperienza particolare come un viaggio all’estero o un importante evento familiare. E dato che il Web offre, in modo apparentemente gratuito, tale possibilità perché non approfittarne?


Diverso è il caso della folla di personaggi dello spettacolo o aspiranti tali. I cui selfie rimbalzano sui tradizionali mezzi di comunicazione di massa e sulle loro ramificazioni nel Web. Ma a differenza del grande pubblico stelle e stelline del piccolo/grande schermo postano i loro ritratti sui social per un fine squisitamente strumentale: rendersi il più possibile visibili aumentando così le chance per ottenere vantaggiosi contratti di lavoro o semplicemente un contratto se si è alle prime armi. A parte quest’ultimo aspetto ciò che va tenuto presente è che, come tutte le immagini, anche i selfie entrano a far parte del circuito mediatico dentro e fuori Internet. Il passaggio dai social alla più generale industria culturale è un fattore decisivo sia per il successo della pratica di fotografarsi sia per il governo di tale pratica da parte del potere mediatico.

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Tornando al piano puramente psicologico l’analisi del selfie svolta da molti osservatori conferma la tendenza della nostra società a produrre individui soli, pieni di paure o di false certezze e dediti a cercare l’ammirazione altrui. Da questo punto di vista il selfie è prevalentemente la realizzazione di un sogno destinato a durare un battito di ciglia nel mondo dell’illusione e del mercato delle immagini. Tuttavia il selfie è anche l’invenzione spontanea di un tipo di immagine fai da te tramite la quale gli individui tentano di: a) costruire una propria biografia; b) recuperare l’unità perduta con il mondo; c) allacciare o rafforzare legami umani in una società di tutti contro tutti. In virtù di tali tensioni la pratica del selfie può essere letta anche su altri piani oltre quello strettamente psicologico. Infatti, passeggiando per i social network e osservando le immagini di se stessi che vengono postate ogni momento dai quattro angoli del mondo si possono notare potenzialità alternative rispetto al conformistico desiderio di apparire sullo schermo.

Innanzitutto sembra affacciarsi in forma embrionale una nuova coscienza storica dopo la fine dell’ideologia del progresso: a partire da se stessi e dai gruppi di appartenenza (famiglia, amici ecc.) coloro che scattano selfie costruiscono un racconto fatto di eventi, avvenimenti e scansioni del tempo fino ad arrivare al selfie quotidiano puntualmente pubblicato sul proprio blog. Certo, spesso il racconto è immaturo e narcisistico così come impone il potere mediatico. Ma riuscirà questa forma di dominio a controllare per sempre tutto il tempo degli individui? Senz’altro è a buon punto e d’altra parte il sistema dei media è uno strumento del biopotere. Ma non potrebbe rimanere vittima della sua stessa logica, la quale impone un modello di selfie inteso come memoria di breve durata e destinato a generare altri selfie in un loop senza fine? I volontari produttori di immagini per quanto ancora potranno essere neutralizzati come i criceti sulla ruota? Prendiamo il caso dei selfie scattati da persone comuni con personaggi famosi. La distanza sociale tra chi ha un potere nel mercato delle immagini e chi non lo ha è per un attimo colmata. Col selfie siamo tutti uguali, seppur nel mondo delle apparenze. E’ un bel guaio anche per il signor Zuckerberg perché dalla finestra rientra un valore, l’uguaglianza, che il neoliberismo ha prepotentemente scacciato dal sistema dei media, da quello scolastico, da quello universitario e da quello politico (superfluo aggiungere da quello economico).

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Ci si domanderà: questo ragionamento è una pia illusione per chi aspira a un domani meno ingiusto? Può darsi. Intanto i padroni delle immagini continuano ad avere un disperato bisogno dei servi non pagati che popolano Internet come dimostrano i selfie con personaggi famosi. E finché questa dialettica muove il mondo della produzione, ivi compreso quello effimero delle immagini, la storia non è finita ed è possibile un futuro alternativo. D’altra parte, come è accaduto di recente, se il fondatore di Facebook può presentarsi a Roma, raccontare la barzelletta di Enea inteso come proto-imprenditore ed essere preso sul serio dagli studenti della Luiss e da tanti giornalisti ciò significa che il mondo delle apparenze è appeso a fili sempre più sottili pronti a spezzarsi. D’altro canto va ammesso che con l’ausilio dell’alta tecnologia (esistono una trentina di app per scattare il selfie ideale) e la complicità (spesso obbligata) delle celebrità dello spettacolo la narrazione della stampa mainstream intorno al selfie è oggi egemone: apparire migliori di ciò che siamo realmente esattamente come fanno quasi tutti i personaggi pubblici. Ma la partita non si chiude qui perché la socializzazione cercata tramite le immagini postate sui social ci avverte di un movimento dialettico: da un lato ci apre alla relazione con l’altro e al confronto con la solitudine e, dall’altro, ci mette nelle mani del potere mediatico intento a favorire esibizionismo e voyeurismo di massa.

Oltre il tempo lo spazio costituisce un’altra dimensione in cui sono presenti virtualità alternative legate alla pratica del selfie. Spesso chi si fa i selfie è un conformista manipolato dal potere economico (nascosto dietro la neutrale veste dell’alta tecnologia) e dall’industria culturale (che manovra le emozioni collettive). Però, giorno dopo giorno i sempre più numerosi selfie conquistano spazi nella sfera pubblica erodendoli ai professionisti della comunicazione. I quali, certo, indagano e commentano il fenomeno dell’autoproduzione di immagini trovando così opportunità per orientare i significati collettivi, ma sono ben consapevoli di non essere più i latifondisti indiscussi della sfera pubblica. E non lo sono più perché troppi professionisti della comunicazione ci hanno fatti entrare nell’era della post-verità con il loro servilismo nei confronti del potere economico. Tanto è che la post-verità si coniuga sempre più con i post-fatti, ossia con la realtà letteralmente inventata da molta stampa attraverso un mix di vero e di falso, di dire e non dire, di occultamenti e amplificazioni. Dinanzi alla realtà fittizia prodotta dal potere mediatico il selfie costituisce al contrario una certezza, meglio: un fatto certo e una verità indiscutibile (sono qui, ora esattamente come mi vedete). Certezza e verità che si espandono giorno dopo giorno e che sottraggono terreno all’esercito di professionisti della manipolazione che occupano i media, vecchi e nuovi che siano.

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Ovviamente tali professionisti fanno di tutto per governare il fenomeno selfie riconducendolo nell’alveo del senso comune e indicando così al grande pubblico in che modo si deve apparire sullo schermo: il selfie perfetto è quello delle star cine-televisive, in particolare femminili. Non solo: per il potere mediatico è fondamentale appropriarsi del gesto di scattarsi una foto (da soli, in coppia, in gruppo) proclamandosi custode indiscusso del rito. Ma è sorto un problema imprevisto: il selfie è molto più di un’immagine fotografica che esalta il look perché include il fotografo rendendolo protagonista tra protagonisti. Autori e non più solo spettatori coloro che scattano selfie contribuiscono a mettere in crisi il potere della comunicazione perché per pur minimi che siano quei gesti riportano i fatti trasformati in immagini al qui ed ora. Nel selfie è presente una quantità di realtà che non si può eludere e uno spaziotempo che non si può manipolare oltre un certo limite. Il quarto d’ora di celebrità per tutti non basta più a soddisfare la richiesta di visibilità sociale.

Patrizio Paolinelli, via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del lavoro, 10 settembre 2016.

Inviato da alex il

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