Chi ha udito mai cosa siffatta?
Chi ha mai visto qualcosa di simile?
Un paese nasce forse in un giorno?
Una nazione viene forse alla luce in una volta?
Ma Sion, non appena ha sentito le doglie, ha subito partorito i suoi figli.
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Nel 1948 è nato in un GIORNO, uno solo, sotto lo sguardo attonito del mondo lo stato d'Isrele!

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alex

I SEGNI: LE GUERRE - «Or voi udirete parlar di guerre e di rumori di guerre… Poiché si leverà nazione contro nazione e regno contro regno» (Matteo 24:6–7).

Fonte: Repubblica

Miliziani di Hamas uccidono e sequestrano civili nelle città del Sud

L’attacco di oggi di Hamas è iniziato esattamente nel cinquantesimo del 6 ottobre 1973, quando una coalizione di stati arabi guidata da Egitto e Siria colpì lo Stato ebraico.

21 località dello Stato ebraico sotto assedio. Il leader di Hamas Haniyeh: “È una campagna eroica a difesa della moschea di Al-Aqsa”. Il premier israeliano risponde: “Vinceremo. Pagheranno un prezzo altissimo”. Ucciso il capo del Consiglio regionale di Shaar Hanegev. L’Iran: (Alleato di Putin contro l'Ucraina) “Fieri dei combattenti palestinesi”.

 


 

La strage del rave di Re'im ripresa dalla telecamera di un'auto: nel video tutta la brutalità dei miliziani

In un video ottenuto da Reuters, sono visibili i momenti di panico e caos che si sono verificati durante il rave di Re'im, in Israele, quando uomini armati hanno attaccato giovani poco dopo l'alba. I partecipanti al festival, che stavano ballando nelle prime ore del mattino, sono mostrati mentre cercano riparo vicino alle auto; alcuni vengono feriti da colpi di arma da fuoco, mentre altri vengono presi come ostaggi. La posizione delle riprese è stata verificata da Reuters utilizzando immagini aeree che mostrano le tende, gli alberi e le recinzioni visibili del video ripreso dal cruscotto di un'auto. Circa 30 persone che erano state segnalate come scomparse dal festival sono riemerse, portando il bilancio delle vittime dell'evento all'aperto a 260, secondo quanto riportato dai media israeliani. Nelle immagini, oltre ai giovani presi come ostaggi, è possibile vedere una persona in fin di vita sotto la parte posteriore di un'auto bianca (al centro dell'inquadratura) che viene uccisa a colpi di fucile da uno degli uomini di Hamas; tuttavia, l'identità di questa persona rimane sconosciuta

alex

Gli israeliani a Gerusalemme e in tutto il sud di Israele sono costretti a cercare rifugio, dopo il (continuo) lancio di razzi da #Gaza!

Questo è un crimine di guerra! Israele ha pieno diritto all'autodifesa. Quando è troppo è troppo! La comunità internazionale deve ritenere responsabili Hamas e Jihad islamica.

Israele ha fatto di tutto per calmare la situazione, ma i palestinesi continuano con il loro terrorismo

Israele difenderà i suoi cittadini e si aspetta che il mondo ritenga i terroristi palestinesi responsabili di questa violenza.

Anche in questo momento stanno nuovamente suonando le sirene nel sud di Israele. Nuova raffica di razzi lanciati da Gaza.

alex

Dichiarazione di Ebenezer Operazione Esodo riguardo la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che condanna gli insediamenti israeliani.
Nel tardo pomeriggio di venerdì 23 dicembre 2016, proprio all'inizio di Chanukkah e Natale, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha varato la Risoluzione 2334 con 14 voti a favore, nessun voto contro e nessun veto. Il Comitato Internazionale di Ebenezer ha reputato sbagliato restare in silenzio (Giacomo 4:17), perciò ha scritto la seguente dichiarazione: Noi, Comitato internazionale di Ebenezer Operazione Esodo, insieme ai collaboratori e ai volontari di Ebenezer in più di 50 nazioni del mondo, non accettiamo la Risoluzione 2334 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, adottata il 23 dicembre 2016. La risoluzione afferma falsamente  he gli insediamenti israeliani in Samaria e Giudea, inclusa Gerusalemme-est, 'non hanno valenza legale ' e costituiscono 'una flagrante violazione della legge internazionale'.

Tale risoluzione è anche in linea con le recenti risoluzioni adottate dall'UNESCO e dall'UNGA, che negano ogni connessione storica degli ebrei con Gerusalemme e con i siti storici di Israele. Facendo questo, le Nazioni Unite, le sue agenzie e la vasta maggioranza delle nazioni, continuano ad applicare un trattamento iniquo e ingiusto verso Israele, una libera nazione democratica basata sullo stato di diritto. Il diritto storico del popolo ebraico in merito alla loro patria Israele è stato riconosciuto nella Conferenza di Sanremo dell'aprile 1920. e nel Mandato per la Palestina del luglio 1922, approvati all 'unanimità dal Consiglio della Società delle Nazioni e sottoscritti dalle principali potenze alleate. Ciò lo ha reso un trattato internazionale giuridicamente vincolante per tutti gli Stati membri e per il Patto della Società delle Nazioni (Art. 22). Questi diritti sono legalmente protetti dall 'articolo 80 dallo Statuto delle Nazioni Unite. Noi crediamo che l'lddio vivente, l'unico vero Dio, il Creatore del cielo e della terra, sia il Dio di Abraamo, Isacco e Giacobbe, il Dio d'Israele, e il Dio e Padre del Messia Yeshua (Gesù Cristo). Dio ha scelto il popolo ebraico, ha dato loro un posto speciale tra tutti i popoli e li ama (Deuteronomio 7:6-8). Attraverso i Suoi patti con il popolo ebraico Egli ha dato loro la terra d'Israele, che comprende tutta Gerusalemme, la Giudea e la Samaria, come loro Terra Promessa. Questi patti, con tutte le relative promesse, sono stati confermati dalla morte e risurrezione del Messia Yeshuà (Romani 15:8). Crediamo che la Bibbia sia l'eterna Parola di Dio, che sia divinamente ispirata, infallibile e autosufficiente in ogni campo della conoscenza e del comportamento
(2 Timoteo 3:16-17; 2 Pietro 1 :20-21 ).
Pertanto, noi riconosciamo il diritto del popolo ebraico a ritornare in Israele e a vivere in Israele, comprese tutta Gerusalemme, la Giudea e la Samaria, in conformità con la Bibbia.

NOI DICHIARIAMO:
1 . Dio ama Israele e il popolo ebraico con il Suo immutabile ed eterno amore, come proclamato in Geremia 31 :3-9.

2. Il patto di Dio con Abraamo e la sua discendenza, come espresso in Genesi 12:3, stabilisce che i popoli e le nazioni che benedicono Israele saranno a loro volta benedetti da Dio, e i popoli e le nazioni che maledicono Israele saranno a loro volta maledetti da Dio. Dio dà un severo awertimento ad ogni nazione che si oppone a Gerusalemme, in Zaccaria 12:1-9.

3. Dio ha stipulato un patto eterno con Israele, dando la terra di Israele al popolo ebraico e come loro patria per sempre. Dio è fedele e mantiene in eterno le Sue promesse (Genesi 17:7-9; Salmo 105:8-11).

4. L'aliya, che significa il ritorno popolo ebraico nella loro antica patria Israele, e la rinascita di Israele, sono espressioni del compimento, da parte di Dio, delle profezie riportate nella Bibbia. Pertanto, Dio stesso dà al popolo ebraico il diritto di vivere e prosperare in Israele, includendo tutta Gerusalemme, la Giudea e la Samaria (Ezechiele capitoli 36 e 37; Isaia 11 : 11-12).
5. Gerusalemme, completa e unita, è la capitale di Israele per sempre. Dio ammonisce severamente, in Gioele 3:1-2 e 16-21, ogni nazione e ogni popolo che cerchi di dividere Gerusalemme o Israele, o di disperdere il popolo ebraico lontano dal loro legittimo territorio.

6. Dio chiama tutte le nazioni e tutti i governi a riconoscere il diritto di Israele di esistere, in base a Zaccaria 2:8.

7. Noi sosteniamo la nazione di Israele, il suo diritto di esistere in pace e il suo diritto di prosperare, come pure il suo diritto di difendere il suo popolo dalle minacce dei nemici. PERTANTO ESORTIAMO tutte le nazioni della terra, e i loro governi, a sostenere l'indiscutibile diritto di Israele di esistere nella terra che Dio gli ha dato, e il suo diritto di avere Gerusalemme come capitale unita per sempre. Il Signore Dio d'Israele è fedele e proteggerà il Suo popolo. Tuttavia, noi non resteremo in silenzio davanti alle false e ingiuste asserzioni della Risoluzione 2334 delle Nazioni Unite. La storia ci insegna che i peccati di omissione sono gravi tanto quanto i peccati di commissione. Il più comune peccato di omissione è restare in silenzio quando un individuo, un gruppo o una nazione, viene trattato con pregiudizio, oppressione e persecuzione. Pertanto, noi siamo dalla parte di Israele e del suo diritto di determinare il futuro del popolo ebraico, e del suo diritto di difendersi e di vivere all'interno di confini sicuri.
Noi siamo dalla parte di Israele! I membri del Comitato del Fondo Internazionale di Emergenza Ebenezer

Dal periodico n.1 2017 Ebenezer operazione esodo

alex

Netanyahu: il voto Onu è una vergogna

La risoluzione dell'Onu che condanna degli insediamenti israeliani in Cisgiordania è una "vergogna" e lo Stato ebraico intende "interrompere i finanziamenti" alle istituzioni delle Nazioni Unite. Lo ha detto il premier israeliano Benyamin Netanyahu, citato dai media locali, nel primo intervento pubblico all'indomani del voto del Palazzo di Vetro.
"La risoluzione definisce la terra israeliana occupata, e questo è vergognoso", ha detto il premier. Il presidente americano Barack Obama "si è schierato contro Israele".
"Ho chiesto al ministero degli Esteri di avviare una rivalutazione entro un mese di tutti i nostri contatti con le Nazioni Unite, compresi i fondi israeliani alle istituzioni Onu e alla presenza di rappresentanti in Israele", ha detto il premier.
Netanyahu ha poi annunciato di aver già disposto il congelamento di circa 30 milioni di shekel destinati a "cinque strutture Onu particolarmente ostili nei confronti di Israele".

(swissinfo.ch, 24 dicembre 2016)
 


Ultima vigliaccata di Obama: voto anti Israele all'ONU

di Mirko Molteni

Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha, a sorpresa, ripescato ieri sera la risoluzione di condanna degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, approvandola all'unanimità con astensione dell'ambasciatrice americana uscente, Samantha Power, che, su input di Obama, non ha esercitato il veto come invece chiesto dal nuovo presidente Trump. È così entrata in vigore la «risoluzione n. 2334» che recita: «Israele cessi completamente e immediatamente ogni attività di insediamento nei territori palestinesi occupati, inclusa Gerusalemme Est».
La bozza era stata presentata già giovedì dall'Egitto, il quale però l'aveva ritirata su richiesta americana. Poi ieri i rappresentanti palestinesi hanno criticato duramente l'Egitto e il nuovo voto è stato indetto su esplicita richiesta di quattro stati fra i membri non permanenti del consiglio: Malesia, Nuova Zelanda, Senegal e Venezuela. La risoluzione è stata approvata con 14 voti, fra cui Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna, e la sola astensione americana. A nulla è valso lo stretto contatto fra Trump e il primo ministro israeliano Netanyahu. La Power ha sostenuto che «la risoluzione prende atto di una situazione reale che impedisce una pace basata su due Stati». Ma è anche una spina che l'amministrazione Obama lascia in eredità al suo successore rendendo più ardui i rapporti USA-Israele.

(Libero, 24 dicembre 2016)

 

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Obama tradisce Israele: Usa astenuti all'Onu sulle colonie ebraiche

È la prima volta che gli Stati Uniti non usano il veto su una risoluzione contro l'alleato. Il presidente uscente ha sempre manifestato antipatia per Netanyahu.

di Fiamma Nirenstein

Con una scelta che si incide nella storia degli Stati Uniti come l'ennesimo colpevole fraintendimento dell'amministazione Obama nei confronti del Medio Oriente, una incapacità che ha portato a stragi immense e a disastri indicibili in Siria ma anche in tante altre zone, il presidente uscente ha deciso di rovesciare la politica tradizionale degli Stati Uniti: tale politica ha sempre difeso Israele col veto nel Consiglio di Sicurezza dalle maggioranze automatiche piene di odio che hanno caratterizzato l'atteggiamento dell' Onu verso Israele.
   Stavolta con un colpo di coda impensabile Obama ha lasciato per la sua legacy in primo piano l'astensione su una risoluzione votata da 14 membri che stabilisce che occorre «distinguere fra il territorio dello Stato di Israele e i territori occupati nel 1967», condanna gli insediamenti che vengono definiti illegali e «un grande pericolo per la possibilità della soluzione dei due Stati» e aggiunge una serie di altre osservazioni fuori di ogni realtà e senso storico. I territori non sono «illegali» ma «disputati» secondo le risoluzioni del 1967, la legge internazionale non è stata violata perché non ci sono mai state deportazioni della popolazione originaria, i territori non sono mai stati «palestinesi» ma giordani e conquistati con una guerra di difesa, e soprattutto la vera difficoltà nel raggiungere un accordo con i palestinesi per due Stati è il rifiuto ad accettare l'esistenza dello Stato d'Israele che ha portato a dire no a soluzioni generose come quelle di Barak e di Olmert. Una risoluzione come quella votata ieri non tiene in nessun conto che ci sono insediamenti indispensabili alla sicurezza mentre altri sono trattabili, consente discriminazioni legate alla Linea Verde, incrementa il BDS, forse anche le sanzioni, promuove odio e incitamento antiebraico, conferisce una vittoria pazzesca per i palestinesi nonostante il rifiuto e il terrorismo, ed è una festa per l'estremismo islamico che odia l'Occidente.
   Gli egiziani avevano rinunciato giovedì alla loro mozione su richiesta, pare, del nuovo presidente Trump; ma il vecchio presidente ha fatto sì, si dice, che la sua gente lavorasse sott'acqua perché la mozione fosse subito ripresentata da Malesia, Venezuela, Nuova Zelanda e Senegal.
   Obama sin dall'inizio del suo primo mandato ha dimostrato verso Israele un'antipatia alimentata dall'opposizione all'accordo nucleare con l'Iran del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, applaudita dal suo stesso Congresso. Che gli importa se l'Iran è diventato il migliore amico di Putin e combatte sanguinosamente in Siria? Obama ha mancato di ogni consistenza nel mondo mediorientale, col suo apprezzamento per la Fratellanza Musulmana e la sua convinzione che il suo personale charme avrebbe creato un rapporto pacifico col mondo islamico.
   E così la sua colpevole sottovalutazione del terrore e la sua repulsione verso l'unico vero difensore della democrazia in medio Oriente, Israele, si combina fino all'apoteosi del suo gesto definitivo con la politica di quell'Onu che nel 75 stabilì col voto che «sionismo è uguale a razzismo» e che ha dedicato al piccolissimo Paese due terzi delle sue condanne ignorando centinaia di migliaia di morti, di profughi, di violazioni. Forse Obama sta disegnando il suo prossimo ruolo di presidente dell'Onu, gli si addicerebbe. Stasera in Israele si festeggia Hanuccà, in parallelo col Natale: che gli uomini di volontà seguitino a esserlo, nonostante Obama e la sua ipocrisia.

(il Giornale, 24 dicembre 2016)
 

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Come volevasi dimostrare

Si potrebbero dire molte cose su quest’ultima risoluzione dell’Onu, ma preferiamo prendere posizione elencando schematicamente pochi punti. Gli argomenti a sostegno ci sono, ma poiché spesso la lunghezza della trattazione indebolisce o a fa perdere di vista l'importanza della tesi, preferiamo elencare pochi punti in forma apodittica.

  1. Obama è sempre stato fin dall'inizio un nemico deciso e determinato di Israele. Il fatto che molti non se ne siano accorti, tra cui molti ebrei, soprattutto americani ma non solo, ha facilitato la sua azione.
  2. Gli Usa sono da tempo sulla via del declino. Il loro allontanamento dal mondo ebraico, plasticamente espresso dal presidente Obama e da chi gli sta intorno, lo conferma in modo chiaro e lo rende irreversibile.
  3. Le Nazioni Unite sono l'ultimo tentativo di riedificare la Torre di Babele. Non è dunque affatto casuale che si trovino in rotta di collisione con Israele, espressione attuale della nazione annunciata da Dio ad Abramo come risposta alla superbia umana.
  4. Oggi i più perniciosi nemici di Israele non sono quelli che brandiscono la minaccia delle armi, ma quelli che agiscono in nome della pace e della giustizia, ed hanno nella menzogna e nell'ipocrisia la loro arma più micidiale ed efficace.
  5. L'antisemitismo di oggi si camuffa sotto il nome di antisionismo e l'antisionismo si camuffa sotto il nome di "politica dei due stati". Conseguenza: la difesa della politica dei due stati è la forma più raffinata di antisemitismo (o di insipienza se è fatta "in buona fede"). Si finge di non aver capito (peggio ancora quando proprio non si è capito) che questo risultato non si raggiungerà mai, ma quello che invece si ottiene è di impedire il radicamento stabile e pacifico dello Stato ebraico tenendolo continuamente sotto pressione e isolandolo sempre di più dal resto del mondo.

Riproponiamo allora in forma aforistica una formulazione presentata più volte nel passato e di cui ogni volta abbiamo riscontrato una nuova conferma.

  • «Con gli accordi di pace i nemici di Israele, non riuscendo ad abbatterlo subito con la violenza, sono riusciti a metterlo su un piano inclinato. Con piccoli, graduali scossoni provano ripetutamente, con pazienza e tenacia, a farlo scivolare dolcemente sempre più in basso, aspettando soltanto il momento in cui sarà arrivato abbastanza in basso da non esserci più bisogno del piano inclinato: una mazzata e via.»

La recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, appoggiata anche dagli Stati Uniti, è l'ultimo scossone subito da Israele sul piano inclinato in cui è stato posto. Sono molti quelli che aspettano la mazzata finale, ma sono destinati a rimanere delusi. Anzi, a subirne le tremende conseguenze. M.C.
 


Promemoria: Da chi sono stati occupati i «territori occupati»?

(Notizie su Israele, 24 dicembre 2016

 

Vogliono annientare Israele

La piccola frazione di un villaggio israeliano in Cisgiordania fa di più per la nostra libertà di tutti i predicozzi malvissuti di una ideologia irenista di fede che ha smarrito sé stessa. L'Onu e la retorica cinica su cos'è la legalità.

di Giuliano Ferrara

In termini tecnici gli insediamenti israeliani a Gerusalemme e in Cisgiordania sono illegali. In termini tecnici, Israele è illegale, sono illegali le sue vittorie nelle guerre difensive contro il proprio annientamento, le sue conquiste, i suoi muri, i suoi posti di blocco, è in certo senso illegale anche la sua autodifesa contro il terrorismo e le insurrezioni palestinesi fatte di pietre, di bombe umane gettate nei matrimoni e nelle prime comunioni, di coltelli infilzati nella schiena della folla anonima e investimenti alle fermate dei bus. E' illegale la sua diplomazia perché è illegale lo stato israeliano, illegali e da boicottare le sue esportazioni, perfino i suoi miracoli di società e di sviluppo sono illegali. Gli ebrei sono illegali da sempre, i loro templi distrutti, il loro insediamento originario è l'esilio, la schiavitù, il pogrom, il ghetto. E non è un modo di divagare navigando attraverso la storia e la metastoria di un sacrificio della diaspora che arriva alle camere a gas passando per secoli di antigiudaismo cristiano e di antisemitismo paganeggiante e razziale, comunque diffuso, stereotipato, dunque un modello culturale e di linguaggio e di pregiudizio al quale pochissimi di noi occidentali siamo rimasti estranei, anche nell'alta società progressista e nell'alta cultura illuminista e laica. Gli unici ebrei legali sono quelli integralmente assimilati o integralmente annientati, le due soluzioni finali della questione ebraica. La dichiarazione di illegalità votata dal Consiglio di sicurezza dell'Onu con l'astensione a tradimento dell'Amministrazione Obama, l'ultimo misfatto dell'uomo che fissò la linea rossa in Siria, famosa, e ora ha cancellato la linea rossa della difesa di Israele in limine mortis del suo potere, per vendetta, è una dichiarazione tardiva e parziale. La coalizione dei nemici e dei falsi amici di Israele punta su quello che considera l'anello debole della catena difensiva israeliana, spacciandolo per profetismo antiarabo-palestinese, ideologia nazionalista e spietato accaparramento di cosa altrui.
  I due popoli non c'entrano. In Israele vive un milione e mezzo di palestinesi, il venti per cento della popolazione. Non sono tollerati, sono cittadini protetti dal sistema democratico, dalle decisioni delle sue corti di giustizia, sono rappresentati nel Parlamento di uno stato che è lo stato degli ebrei ma ammette cittadinanza e diritti per i non ebrei. Per quanto fanatismo religioso possa essere incorporato tra i settler ebrei in Cisgiordania e a Gerusalemme est, per quanto dall'alto gli snob e i corrotti dello spirito guardino le idealità, il senso biblico delle radici, l'impresa di frontiera di quanti scelgono di installarsi o insediarsi nei Territori, per quanto cerchino di trasformare in fanatismo coloniale l'ultima grande impresa pionieristica del popolo più solo e coraggioso del mondo, non sono gli abitanti degli insediamenti a essere coloni ebrei, sono gli ebrei a essere dovunque e sempre degli insediati, chiusi nelle loro fortezze con i loro vecchi e bambini, operosi, devoti, e finalmente anche armati e forti di una vita di vocazione e di destino che chiede il giusto riconoscimento alle coscienze delle persone mentalmente sane e pulite. Questa è la loro illegalità internazionale. E si capisce che a difesa di questa illegalità siano schierati il governo Netanyahu e una componente immensa, se non maggioritaria, degli ebrei di Israele e della diaspora. E se non fosse così, se solo una minoranza fosse in grado di capire che esistono famiglie, esseri umani, comunità che hanno deciso di non sottomettersi a quanto la storia e il fato hanno loro riservato, pazienza. Contiamoci con semplicità nella minoranza dei giusti senza sentirci specialmente giusti.

(Il Foglio, 27 dicembre 2016)

 

Contro l'Onu e contro Obama. Il Congresso (con Trump) difende Israele

Netanyahu "riduce" i rapporti con 12 paesi, oggi il voto per i nuovi insediamenti. Dettagli sui precedenti. "Un club per passare il tempo", twitta The Donald.

di Paola Peduzzi

MILANO - Il ministero degli Esteri israeliano ha fatto sapere martedì di aver "temporaneamente ridotto" i legami di collaborazione con dodici dei quattordici paesi che hanno votato a favore della risoluzione 2334 - l'America si è astenuta - che condanna la politica degli insediamenti del governo di Benjamin Netanyahu. Contestualmente all'offensiva diplomatica, il governo di Israele ha stabilito un voto per oggi al comune di Gerusalemme per l'approvazione della costruzione di altre 600 "unità di alloggi" nella parte est della città, prima tranche di un progetto che comprende 5.600 unità. Il messaggio è chiaro: la risoluzione non avrà effetti sugli insediamenti, e come dice l'ex ministro Tzipi Livni gli altri paesi devono smettere "di dare Israele per scontato". Il raffreddamento nei confronti dei dodici paesi procede di pari passo con il congelamento di fondi ad alcune agenzie dell'Onu. Molti in Israele sostengono che Netanyahu sta condannando il paese a un isolamento diplomatico rischioso, così come a destra e a sinistra ognuno recita la propria parte politica nei confronti del premier. Ma il problema, si sa, è l'America, anzi: Barack Obama. Il Congresso, che è a maggioranza repubblicana, già da giorni manifesta solidarietà a Israele contro il "tradimento" obamiano, mentre il senatore conservatore Ted Cruz ha chiesto di congelare i finanziamenti statunitensi all'Onu fino a che la risoluzione non sarà annullata. L'Onu è nel mirino anche del presidente eletto, Donald Trump, che già aveva tuittato: tutto cambierà dal 20 gennaio (con l'inaugurazione) e ha aggiunto che l'Onu "ha un così grande potenziale, ma ora è soltanto un club di persone che si incontrano, parlano e passano del tempo assieme.

(Il Foglio, 28 dicembre 2016)

Così Obama ha tramato per pugnalare Israele Trump twitta: resistete

Gli incontri segreti coi palestinesi prima del noto Onu. E Kerry insiste sui due Stati divisi. Il bluff di Abu Mazen sugli accordi di pace: «Pronti a sederci al tavolo se Netanyahu smetterà di costruire nei territori» E il tycoon: «Il 20 gennaio è vicino...»

di Fiamma Nirenstein

Ci vuole la febbre antisraeliana che ha travolto Obama e il suo governo al tramonto, la volontà di lasciare un graffio sanguinante nel futuro dello Stato Ebraico, per risvegliare i sensi sopiti del segretario di Stato John Kerry, eccitato come non mai nel suo discorso di ieri sul conflitto israelo-palestinese. La sua passione può anche essere letta come una contraddizione, un desiderio di differenziarsi. Ma questo discorso altro non è, nei fatti, che la conferma del retaggio del suo presidente: dopo aver per la prima volta nella storia americana confermato, astenendosi, un voto dell'Onu che condanna Israele, ha lanciato Kerry come un missile contro l'unico stato democratico e laico del Medio Oriente.
   La riunione indetta per il 15 gennaio a Parigi ha adesso altre migliori munizioni per aggredire di nuovo Israele. Kerry ha ripetuto più volte il suo intento: se le due parti non realizzeranno la soluzione «due stati per due popoli» Israele si troverà a dominare un altro popolo, abbandonando così la sua democrazia. Giusto: è un problema.
   Ma Kerry, che nei particolari ha spiegato quanto gli insediamenti siano dannosi, ha messo da parte l'odio fanatico e il rifiuto del nemico che costringe Israele a garantirsi confini sicuri; non ha preso in considerazione il rifiuto ad ammettere uno Stato ebraico; condanna così di fatto la presenza israeliana a est della Linea Verde, compreso a Gerusalemme est, il Muro del Pianto e ogni altro indispensabile spazio come la zona dell'aeroporto da cui si può prendere di mira il prossimo velivolo.
   I tempi scelti da Kerry per il suo discorso sono affannati, tardivi, connessi alla risoluzione dell'Onu: dopo quattro anni di politiche che hanno portato il Medio Oriente al caos, dalla Siria allo Yemen, dopo l'accordo tanto sudato con l'Iran, tutta la proposta di Kerry è che Israele deve smettere di costruire insediamenti per lasciare spazio a uno stato palestinese. Buona idea, ma come spiega Kerry che gli Usa non hanno mai trovato il tempo di spingere Abu Mazen a discutere con Netanyahu, che l'ha invitato mille volte, il futuro dei due possibili Stati? Per valorizzare il risultato della propria strategia diplomatica, quella per cui la delegittimazione di Israele è il primo passo verso la vittoria, Abu Mazen ha fatto seguito al discorso di Kerry con un'apertura che suona come un bluff: se Israele smetterà di costruire nei territori, l'Anp ottempererà a tutti gli accordi e si siederà al tavolo della pace. Una dichiarazione che esalta la scelta di intervento degli Usa.
   Donald Trump ieri si è fatto vivo con un tweet esplicito: «Non possiamo continuare a lasciare che Israele sia trattata con tanto disprezzo e mancanza di rispetto. Un tempo gli Usa gli erano molto amici, ma non più. L'inizio della fine è stato il terribile accordo con l'Iran e ora questo Onu. Resisti Israele, il 20 di gennaio si avvicina rapidamente». Un tweet dettato, sembra, dalla preoccupazione che Israele si senta abbandonata dagli Usa.
   Obama ha costruito in prima persona la trappola dell'Onu: un giornale egiziano ha rivelato gli incontri (semi negati dagli americani) di Kerry e di Samantha Rice con i palestinesi settimane prima della risoluzione. La tela di ragno si è estesa ovunque: gli inglesi hanno aiutato a scrivere la risoluzione. E Obama stesso avrebbe telefonato al presidente ucraino per chiedere di non astenersi: gli ucraini lo avrebbero fatti volentieri perché Israele li aveva sostenuti con il voto che condannava l'aggressione russa in Crimea. E anche il tentativo di Putin di rallentare il percorso della risoluzione è stato fermato con la subdola forza della diplomazia, che nasconde le peggiori inimicizie. Come quella, profonda e radicata dell'antipatia per Israele del presidente di un Paese che è sempre stato, prima di lui, il migliore amico di Israele in nome di valori comuni che il tempo ha consumato.

(il Giornale, 29 dicembre 2016)
 


Trump: «Basta maltrattare Israele». Netanyahu ringrazia

«Non possiamo continuare a far sì che Israele sia trattata con totale disprezzo», scrive Donald Trump. E Benyamin Netanyahu ringrazia: «Grazie per la tua calda amicizia e il tuo sostegno a Israele». Il botta e risposta, corso ieri sul filo di Twitter, è stato un segnale di distensione del presidente eletto americano al primo ministro israeliano dopo la presa di posizione dell'amministrazione di Barack Obama contro le colonie israeliane.
Trump, nei giorni scorsi, aveva attaccato in maniera frontale le Nazioni unite, definendole «un club dove la gente si ritrova a fare chiacchiere e divertirsi». E ieri, su Twitter, è tornato a tuonare contro il voto che metterebbe a repentaglio i rapporti tra i due Paesi. «Israele aveva negli Usa un amico, ora non più», ha scritto Trump. «L'inizio della fine è stato l'orribile accordo con l'Iran, e ora con l'Onu». E ha invitato Israele a restare forte, fino al 20 gennaio, giorno del suo insediamento. «Sto facendo del mio meglio per ignorare le provocatorie dichiarazioni del presidente Obama. Ritenevo che sarebbe stata una transizione dolce», ha chiosato.
Il segretario di Stato americano John Kerry ha difeso l'impegno di Obama per Israele e la sua sicurezza: «Una sohuzione a due Stati», ha detto, «è l'unica strada per una pace duratura». E ha quindi bacchettato Netanyahu, definendolo il più a destra della storia israeliana, con un'agenda definita dagli elementi più estremisti». Tra Obama e il presidente eletto il clima è sempre più teso. Barack starebbe per mettere a punto, secondo il Washington Post, una serie di misure punitive nei confronti della Russia, rea di avere influito sulle elezioni presidenziali.

(La Verità, 29 dicembre 2016)
 


Il colpo di coda di Barack

di Cesare De Carlo

Com'è difficile congedarsi dal potere. Soprattutto quando lo si ritiene la proiezione di una superiorità ideologica. Barack Obama conferma il paradossale assunto. Alle Nazioni Unite si unisce ai nemici di Israele, rovesciando oltre mezzo secolo di politica americana. Annuncia altre sanzioni contro la Russia per il presunto hackeraggio. Cancella la lista dei musulmani sotto sorveglianza da parte della Homeland Security. Firma un divieto di trivellazione in Alaska. Ma come? Possibile che non si renda conto di dovere sgomberare la Casa Bianca fra soltanto tre settimane? Da presidente scadente - di nome e di fatto - dovrebbe limitarsi a firmare qualche perdono (sicuramente è in arrivo quello per Hillary Clinton). E agevolare la transizione fra la vecchia e la nuova amministrazione. Invece fa di tutto per complicarla. Perché? Ovvio. Ne va della legacy, della sua eredità storica. Sa che Donald Trump abrogherà l'unica, celebrata riforma dei suoi otto anni, quella sanitaria. Un disastro. Sa che anche in politica estera dal 20 gennaio «cambierà tutto». Sa che al successore basterà un colpo di penna per cancellare i suoi ordini esecutivi. Frustrazione e dispetto animano i suoi risentimenti.

(Il Giorno, 29 dicembre 2016)
 


Sarà guerra a Israele

Dai tribunali alle sanzioni, ecco cosa ha in serbo la risoluzione dell'Onu contro lo stato ebraico

di Giulio Meotti

ROMA - La risoluzione 2334 dell'Onu, che condanna come "illegali" gli insediamenti israeliani in Cisgiordania grazie all'astensione degli Stati Uniti, avrà conseguenze pesanti per lo stato ebraico. Si comincia dalla Corte dell'Aia: ogni israeliano, civile o militare, coinvolto negli insediamenti, sarà passibile di giudizio per aver violato la Convenzione di Ginevra. L'esercito israeliano, che amministra i Territori, può essere incriminato se demolisce le case dei terroristi, se espropria la terra per ragioni di "sicurezza", se pianifica case per israeliani. La decisione ora è nelle mani del procuratore dell'Aia, Fatou Bensouda, che ha già aperto un'inchiesta sugli insediamenti israeliani, che a suo avviso costituirebbero "crimine di guerra".
   La risoluzione dell'Onu è una vittoria spettacolare per il Bds, il movimento di boicottaggio di Israele che vanta già molti successi in Europa e che è galvanizzato dal voto al Palazzo di vetro. Aziende coinvolte nella costruzione della barriera anti terrorismo in Cisgiordania possono essere oggetto di cause in paesi europei attivi su questo fronte, come Olanda e Inghilterra. La risoluzione prevede un report del segretario generale dell'Onu ogni tre mesi sul rispetto della stessa: Israele diventa il nuovo sorvegliato speciale. La risoluzione separa l'Israele del 1948 da quello del 1967 (compresa la Città Vecchia di Gerusalemme), aprendo la strada a sanzioni contro Israele, sul modello del Sudafrica dell'apartheid, da parte di stati particolarmente avversi a Israele, come la Svezia. Un anno fa l'Unione europea ha approvato la marchiatura dei prodotti israeliani oltre la Linea verde e ora Israele teme una nuova ondata di misure da parte di Bruxelles. Banche, compagnie petrolifere, centri commerciali, aziende di high tech e telefonia che operano nei Territori saranno passibili di sanzioni. Le prossime misure sono già al vaglio della Commissione europea: le banche israeliane che offrono mutui ai proprietari di case in Cisgiordania si espongono a ripercussioni; le catene di vendita al dettaglio che detengono negozi negli insediamenti possono essere escluse dal mercato europeo; i produttori che utilizzano parti realizzate in fabbriche israeliane possono subire speciali marchiature; gli israeliani che vivono negli insediamenti possono perdere il privilegio che consente oggi ai cittadini israeliani di viaggiare in Europa senza visto; le università israeliane nei Territori si vedono private del riconoscimento di Bruxelles. Lo European Council on Foreign Relations, le cui proposte arrivano sul tavolo dei legislatori europei, ha suggerito di mettere sotto sanzione alcune banche israeliane. Succede già: Deutsche Bank ha incluso la Hapoalim Bank israeliana in una lista di compagnie riguardo le quali gli investimenti sollevano "questioni etiche". Lo stesso ha fatto la più grande banca danese, Danske Bank, mentre la svedese Nordea ha messo sotto scrutinio le israeliane Leumi e Mizrahi-Tefahot. Il più grande fondo pensione d'Olanda, Pggm, ha ritirato gli investimenti da cinque istituti israeliani. Su questa "lista nera" di aziende israeliane è già al lavoro l'Alto commissario Onu per i diritti umani, Zeid Ra'ad Zeid Al Hussein. Gran bel finale di 2016. Hanno tolto le sanzioni all'Iran per metterle all'unica società aperta fra Marrakech a Islamabad: Israele.

(Il Foglio, 29 dicembre 2016)

 

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Un titolo che conferma le profezie

“Sarà guerra a Israele”: è vero, l’ha già detto molti secoli fa la Bibbia. “Io adunerò tutte le nazioni per far guerra a Gerusalemme”, dice il Signore nel libro del profeta Zaccaria (14:1). E se si legge attentamente ci si accorge che non può trattarsi dell’assedio fatto dai Romani nel 70. “Tutte le nazioni”, dunque le “Nazioni Unite”, si metteranno contro Israele, partendo proprio dal problema di Gerusalemme, come si sta facendo oggi. Consigliamo di leggere gli ultimi tre capitoli del profeta Zaccaria: si vedrà che lì non è Israele ad essere un problema per il mondo, ma è tutto il mondo, con al centro Israele, ad essere un problema per Dio. E nella Bibbia intera, Nuovo Testamento compreso, se ne indica la soluzione.
Rimanendo nell’attuale contingente, dovrebbe essere chiaro che la soluzione dei due stati con priorità assoluta data alla presenza delle “colonie” invece che alla presenza a Gaza di Hamas è la giustificazione con cui il mondo legittima una guerra contro Israele in atto già da molto tempo e che assume soltanto forme diverse con lo svolgersi degli eventi. In conclusione, chi continua a dire che l’ostacolo alla pace sono le “colonie” o è un ignorante per il solo fatto di usare questo termine o è in mala fede o non ha capito niente. M.C.
 


Post Scriptum per chi non avesse voglia di leggere la Bibbia. In Zaccaria sta anche scritto: "In quel giorno avverrà che io avrò cura di distruggere tutte le nazioni che verranno contro Gerusalemme."

(Notizie su Israele, 29 dicembre 2016)

alex

La lista completa del voto all'assemblea generale dell'Onu: chi ha votato sì, chi ha votato no (un solo paese europeo), chi si è astenuto e chi non c'era

L'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato per il riconoscimento della Palestina come "stato osservatore non membro", status che le consentirà di partecipare ai dibattiti delle Nazioni Unite e di far parte in futuro della Corte Penale Internazionale. I voti favorevoli sono stati 138, quelli contrari 9, quelli astenuti 41.

Hanno votato a favore:
Afghanistan, Algeria, Angola, Antigua e Barbuda, Arabia Saudita, Argentina, Armenia, Austria, Azerbaijan, Bahrain, Bangladesh, Bielorussia, Belgio, Belize, Benin, Bhutan, Birmania, Bolivia, Botswana, Brasile, Brunei, Burkina Faso, Burundi, Cambogia, Capo Verde, Repubblica Centrale Africana, Chad, Cile, Cina, Unione delle Comore, Congo, Costa Rica, Costa d'Avorio, Cuba, Cipro, Repubblica Democratica Popolare di Corea (Corea del Nord), Danimarca, Dominica, Repubblica Dominicana, Ecuador, Egitto, El Salvador, Emirati Arabi Uniti, Eritrea, Etiopia, Filippine, Finlandia, Francia, Gabon, Gambia, Georgia, Ghana, Giamaica, Giappone, Gibuti, Giordania, Grecia, Grenada, Guinea, Guinea Bissau, Guyana, Honduras, India, Indonesia, Iran, Iraq, Irlanda, Islanda, Italia, Kazakistan, Kenya, Kuwait, Kirghizistan, Laos, Lesotho, Libano, Libia, Liechtenstein, Lussemburgo, Malesia, Maldive, Mali, Malta, Marocco, Mauritania, Mauritius, Messico, Mozambico, Namibia, Nepal, Nicaragua, Niger, Nigeria, Norvegia, Nuova Zelanda, Oman, Pakistan, Perù, Portogallo, Qatar, Russia, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Sao Tomé e Principe, Isole Salomone, Senegal, Serbia, Seychelles, Sierra Leone, Siria, Somalia, Spagna, Sri Lanka, Sudafrica, Sudan, Sud Sudan, Suriname, Svezia, Svizzera, Swaziland, Tagikistan, Tailandia, Tanzania, Timor Est, Trinidad e Tobago, Tunisia, Turchia, Turkmenistan, Tuvalu, Uganda, Uruguay, Uzbekistan, Venezuela, Vietnam, Yemen, Zambia, Zimbabwe.

Hanno votato contro:
Israele, Stati Uniti, Panama, Palau, Canada, Isole Marshall, Narau, Repubblica Ceca e Micronesia.

Si sono astenuti:
Albania, Andorra, Australia, Bahamas, Barbados, Bosnia ed Erzegovina, Bulgaria, Camerun, Colombia, Repubblica di Corea (Corea del Sud), Croazia, Repubblica Democratica del Congo, Estonia, Fiji, Germania, Guatemala, Haiti, Lettonia, Lituania, Repubblica di Macedonia, Malawi, Moldavia, Monaco, Mongolia, Montenegro, Paesi Bassi, Papua Nuova Guinea, Paraguay, Polonia, Regno Unito, Romania, Ruanda, Samoa, San Marino, Singapore, Slovacchia, Slovenia, Togo, Tonga, Ungheria, Vanuatu.

Erano assenti alla votazione:
Guinea Equatoriale, Kiribati, Liberia, Madagascar, Ucrain

(il Post, 30 novembre 2012) 

alex

Con un provvedimento mondiale dettato da improrogabili esigenze di spending review, si potrebbe utilmente chiudere l'Onu per manifesta inutilità. Le Nazioni Unite conquistano la vetrina del mondo ogni volta che bisogna umiliare in qualche modo

Israele (dimenticando che lo Stato israeliano è nato grazie a una spartizione Onu che prevedeva la nascita di uno Stato palestinese, a suo tempo accettato da Israele e rifiutato dagli arabi). Per il resto, ogni volta che c'è da difendere la pace, o proteggere qualche martoriata popolazione dagli effetti di una pulizia etnica, o tutelare i diritti umani, l'Onu sparisce, o addirittura consegna le chiavi agli aguzzini. Come quando affidò alla Libia di Gheddafi la presidenza della commissione per i diritti umani, o all'Iran delle lapidazioni quella per la difesa dei diritti delle donne. Oggi affida alla Turchia il compito di difendere il vessato popolo palestinese. Ma nessuno le chiede conto del trattamento del popolo curdo. E il fatto che ad Ankara non si può nemmeno nominare il massacro degli armeni.

Nel Ruanda l'Onu non c'era, e se c'era manifestava la sua impotenza. A Srebrenica i caschi blu c'erano, ma per non muovere un dito contro le stragi. L'Onu non c'è, neanche un comunicato, una nota di disappunto, una timida perplessità pubblica, quando bande di fanatici tentano di uccidere in Pakistan una ragazzina la cui unica colpa è di voler andare a scuola. L'Onu non c'è quando i cristiani sono sterminati in Nigeria. L'Onu non c'è quando Morsi si proclama dittatore. L'Onu lascia soli i giovani che protestano di nuovo a piazza Tahrir, non alza la voce se alle ragazze della «primavera araba» i Fratelli musulmani hanno imposto i test obbligatori di verginità. L'Onu non c'è a fermare l'eccidio del Darfur. L'Onu non c'è quando la Cina vessa, a scopo dissuasivo per i possibili emuli, le famiglie dei giovani tibetani che si danno fuoco per I'ìndìpendenza della loro Patria. L'Onu non c'è quando si apprende che, sempre in Cina, le operaie sono costrette a fare il test di gravidanza per imporre l'aborto di Stato. L'Onu non c'è quando nella Birmania dei simpatici e coraggiosi monaci vestiti d'arancione viene perseguitata la minoranza musulmana. L'Onu non c'è mai, per definizione.

Però c'è quando deve organizzare a Durban un convegno contro il razzismo che diventerà la più clamorosa manifestazione di antisemitismo sotto l'egida delle Nazioni Unite: una vergogna assoluta. C'è se deve far sfilare sul palco del Palazzo di Vetro le delegazioni delle numerose tirannie sparse nel mondo che condannano all'unisono la «disumana» Israele. In questo caso c'è sempre. E allora, se proprio non si vuole abolire l'Onu, si operino dei tagli netti per convocare solo un paio di volte l'anno l'assemblea generale per inveire contro Israele. Risparmio assicurato ma the show must go on.

(Corriere della Sera, 3 dicembre 2012)
di Pier Luigi Battista

alex

di Marcello CIcchese

Qualcuno ha detto che l'Onu, accettando lo stato palestinese come membro oosservatore, ha commesso un altro errore. Ma non è vero: oggi l'Onu non fa che proseguire quel cammino di stravolgimento del diritto internazionale che è iniziato nel 1947 con la Risoluzione di spartizione del territorio, allora chiamato Palestina, che dalle Potenze vincitrici della prima guerra mondiale era stato delineato all'interno dell'ex impero ottomano al solo scopo di "ricostituire" (non far nascere ex novo) la nazione del popolo ebraico. Non si tratta dunque di errore da parte dell'Onu, ma di proseguimento coerente e voluto di una politica di progressiva negazione dei diritti del popolo ebraico. L'anno scorso, quando l'assemblea delle Nazioni Unite si accingeva a fare un primo tentativo (non riuscito) nella medesima direzione, avevamo presentato il libro di Howard Grief:"The Legal Foundation and Borders of Israel under International Law". Oggi presentiamo un altro libro che espone in modo molto più succinto le stesse tesi: Cinthia D. Wallace, "Foundations of the International Legal Rights of the Jewish People and the State of Israel". Nella rubrica “Approfondimenti” se ne può leggere l’abstract in italiano.
Poiché nei tempi che incombono si sentono ripetere con leggerezza slogan che hanno soltanto il carattere della ripetitività senza averne alcuno di verità, ripresentiamo, in forma leggermente aggiornata, sette tesi che avevamo elencato l’anno scorso nella medesima occasione. Chi ne chiede la dimostrazione può leggersi i testi indicati sopra.
  1. Lo Stato d'Israele non è il frutto tardivo del colonialismo delle potenze occidentali, ma, al contrario, le sue difficoltà sono dovute al perdurare di atteggiamenti colonialstici europei che hanno favorito la nascita puramente strumentale di Stati arabi come Iraq, Giordania, Libano, Arabia Saudita, mentre hanno danneggiato la fondazione dello Stato ebraico.
  2. La legittimità nazionale dello Stato ebraico non nasce nel 1947 con la Risoluzione di spartizione 181 dell'Onu, ma nel 1920 con la Risoluzione di Sanremo stabilita dalle Potenze alleate vincitrici della prima guerra mondiale:
  3. La Risoluzione di spartizione 181 non è la benevola dichiarazione che ha fatto nascere lo Stato d'Israele, ma, al contrario, è la malevola prevaricazione che ha causato l'illegale decurtazione di una parte consistente della terra che già apparteneva, de jure, allo Stato ebraico.
  4. L'Olocausto non è la molla che ha spinto le nazioni, per rimorso e volontà di compensazione, a dare agli ebrei una nazione, ma, al contrario, è la tragedia che ha costretto l'Organizzazione Sionista e l'Agenzia Ebraica ad accettare, come sotto ricatto, la spartizione della loro terra perché era assolutamente urgente dare asilo alle migliaia di profughi ebrei scampati all'Olocausto, e che nessuno, a cominciare dalla Mandataria Gran Bretagna, voleva accogliere.
  5. Uno Stato palestinese, nel senso geografico del termine, esiste già, ed è lo Stato ebraico d'Israele. Uno Stato arabo palestinese non ha alcuna legittimità nella terra che, fin dall'inizio delle trattative successive alla prima guerra mondiale, è stata destinata dalle Potenze alleate vincitrici ad essere la sede della nazione ebraica.
  6. Il costituendo Stato arabo nella Terra d'Israele e/o Palestina non nasce con l'intenzione di vivere accanto allo Stato ebraico, ma, al contrario, con il solo scopo di arrivare a distruggerlo. Chi pensa di dar prova di moderazione parlando di "due stati per due popoli che vivano l'uno accanto all'altro in pace e sicurezza" contribuisce, che lo voglia o no, in buona fede o no, al raggiungimento dell'obiettivo arabo.
  7. Per anni la politica d'Israele è stata "terra in cambio di pace": non ha ottenuto niente. In realtà Israele ha dato "diritti in cambio di pace". La terra, la vedono tutti, per vedere i diritti invece bisogna leggere e studiare, se si vuole procedere in termini di verità e giustizia. Se invece si vuole soltanto ottenere quello che si vuole con la forza e la real politik, studiare non serve: basta sparare, quando si può, e mentire, quando non si può. Meglio ancora quando si possono fare le due cose insieme, come è accaduto recentemente con l’accoppiata Hamas-Onu.
Con i cosiddetti accordi di pace i nemici di Israele, non riuscendo ad abbatterlo subito con la violenza, sono riusciti a metterlo su un piano inclinato. Con piccoli, graduali scossoni provano ripetutamente, con pazienza e tenacia, a farlo scivolare dolcemente sempre più in basso. L’ultima decisione Onu è un altro scossone, per la felicità di coloro che aspettano soltanto il momento in cui Israele sarà arrivato così in basso da non esserci più bisogno di scossoni: una mazzata e via.
E le nazioni buone che amano Israele continueranno ad amarlo, perché proporranno l’istituzione di un’altra Giornata della Memoria: la memoria del compianto Stato d’Israele, che - diranno - purtroppo non esiste più, ma - continueranno a dire convinte - aveva il diritto all'esistenza.
Ma tutto questo non avverrà.

(Notizie su Israele, 30 novembre 2012)

alex

Presentiamo, in forma leggermente riorganizzata per favorirne la lettura, l'abstract di un libro di Cynthia D. Wallace recentemente uscito: "Foundations of the International Legal Rights of the Jewish People and the State of Israel". L'abstract compare nel libro stesso tradotto in diverse lingue, tra cui l'italiano, ma solo la versione originale inglese fa testo. 
 
Nel diritto internazionale, come in ogni tipo di diritto, esistono sempre due lati di una questione. Se così non fosse, non ci sarebbe bisogno di soluzioni legali. Inoltre, entrambe le parti in qualsiasi conflitto ritengono di avere ragione, o almeno di avere i mezzi per comprovarlo. Di conseguenza, non esistono leggi create a vuoto; le leggi vengono create a seguito di un bisogno sufficientemente sentito.


La Dichiarazione Balfour

Nel 1917, a seguito degli eventi della Prima Guerra Mondiale, fu identificato un bisogno profondo e fu lanciato un appello. Il bisogno era quello del popolo ebraico, che era stato disperso in tutto il mondo per circa duemila anni, e che sentiva la necessità di avere un focolare nazionale. La voce era quella di Lord Balfour, che parlava a nome del Gabinetto di Guerra britannico a difesa del popolo ebraico in tutto il mondo. Questo stringente bisogno trovò espressione ufficiale nella Dichiarazione Balfour.
La Dichiarazione Balfour fu una dichiarazione di natura politica, senza autorità legale; inoltre non aveva valore internazionale. Non di meno, si trattò di un importante punto di svolta nella storia del popolo ebraico in diaspora, dandogli una speranza futura di vedere adempiuto l'immortale desiderio di ottenere la sua antica Terra Santa.
Questa dichiarazione ottenne lo scopo di evidenziare a livello internazionale il bisogno di un popolo che non aveva patria di avere una sua "patria nazionale" a cui poter fare ritorno. Di significato monumentale fu il riconoscimento ufficiale degli importantissimi legami storici, religiosi e culturali degli Ebrei con la terra dei loro padri, che sotto le dominazioni greca e romana divenne nota come "Palestina".
Poiché si trattava di una causa giusta e di un concetto giustificato, era necessario trovare un modo per elevare il contenuto di tale Dichiarazione a livello di legge internazionale. Di conseguenza, esso fu portato dal Consiglio Supremo delle Principali Potenze Alleate e Associate (Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone e Stati Uniti) alla Conferenza di Pace di Parigi nel 1919.
La questione si fece più complessa man mano che venivano presentate richieste di rivendicazioni territoriali sia dalle delegazioni arabe che da quelle ebraiche, in quanto il vecchio Impero Ottomano stava per essere ripartito fra le potenze vincitrici; non fu quindi possibile risolvere la questione nel corso della Conferenza di Parigi.


La Conferenza di Sanremo del 1920

Ciò che avvenne alla Conferenza di Parigi, e che contribuì alla progressione degli eventi che stiamo qui esaminando, fu la creazione della Società delle Nazioni che, all'Articolo 22 del suo Patto, prevedeva la costituzione di un sistema di mandati fiduciari sui territori del vecchio Impero Ottomano.
La successiva importante pietra miliare sul percorso verso uno status giuridico internazionale e una patria nazionale ebraica fu la Conferenza di Sanremo, tenutasi presso la Villa Devachan a Sanremo, in Italia, dal 18 al 26 aprile 1920. Si trattava di un'«estensione» della Conferenza di Pace di Parigi del 1919, al fine di trattare alcune di queste questioni rimaste in sospeso. Lo scopo dei quattro (su cinque) membri del Consiglio delle Principali Potenze Alleate e Associate che si riunì a Sanremo (in quanto gli Stati Uniti erano presenti solo come osservatori, a motivo della politica non intervenzionista del Presidente Woodrow Wilson), consistette nel valutare le rivendicazioni presentate, deliberare e prendere decisioni sul riconoscimento legale di ciascuna rivendicazione. L'esito, sulla base dell'Articolo 22 del Patto della Società delle Nazioni, fu l'istituzione di tre mandati, uno su Siria e Libano (in seguito separato in due mandati), uno sulla Mesopotamia (Iraq), e uno sulla Palestina. Il Mandato per la Palestina fu affidato alla Gran Bretagna, come "impegno sacro per la civiltà" in relazione alla "costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico". Si trattava di una risoluzione giuridicamente vincolante di diritto internazionale.
In due dei tre mandati originali si riconosceva che il popolo indigeno aveva la capacità di autogovernarsi, con la potenza mandataria incaricata semplicemente di prestare assistenza nella costituzione di istituzioni di governo, ove necessario. Ciò non valeva per la Palestina, poiché essa, in base ai termini del Mandato, doveva diventare la patria ("focolare nazionale") del popolo ebraico.
Nonostante il popolo ebraico fosse parte della popolazione indigena della Palestina, la maggioranza di esso all'epoca non viveva ancora in questa Terra.
Il mandato per la Palestina era quindi molto diverso dagli altri e definiva come gli Ebrei si sarebbero stanziati nella Terra per poi formare una nazione realizzabile entro il territorio allora noto come "Palestina".


Il Mandato per la Palestina

Gli obblighi singolari del Mandato nei confronti del popolo ebraico in relazione allo stabilimento della loro patria nazionale in Palestina, diedero pertanto un carattere sui generis (unico, singolare) al Mandato per la Palestina.
I confini della "Palestina" a cui si faceva riferimento nelle rivendicazioni presentate, includevano territori a ovest e a est del fiume Giordano. Le richieste degli Ebrei specificavano che il fine ultimo del Mandato sarebbe stato "la creazione di un commonwealth autonomo", beninteso che "nulla deve essere fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina".
Il risultante Mandato per la Palestina, approvato dal Consiglio della Società delle Nazioni nel luglio del 1922, fu un trattato internazionale e come tale legalmente vincolante.
La decisione presa a Sanremo rappresentò uno spartiacque nella storia del popolo ebraico, che era stato un popolo senza patria per circa duemila anni. Dalla prospettiva di Chaim Weizmann, presidente della neonata Organizzazione Sionista e futuro primo Presidente dello Stato di Israele, "il riconoscimento dei nostri diritti in Palestina è incorporato nel trattato con la Turchia ed è divenuto parte del diritto internazionale. Questo rappresenta l'evento politico più rilevante in tutta la storia del nostro movimento, e forse non è esagerato dire in tutta la storia del nostro popolo a partire dall'Esilio."
Secondo l'Organizzazione Sionista d'America, la Risoluzione di Sanremo "corona la dichiarazione britannica [Balfour] promulgandola come parte della legge delle nazioni del mondo".
La politica da implementare, come contenuta nel Mandato per la Palestina, era coerente con la Dichiarazione Balfour nel riconoscere in maniera significativa i legami di natura storica, culturale e religiosa del popolo ebraico con la Terra Santa e ancora più forte rispetto alla Dichiarazione a motivo dell'inserimento del principio fondamentale secondo cui la Palestina avrebbe dovuto essere ricostituita come focolare nazionale del popolo ebraico. È particolarmente importante sottolineare l'inclusione nei termini del Mandato (tramite l'Articolo 2) del principio fondamentale indicato nel Preambolo di questo accordo internazionale, secondo cui "con ciò è stato dato riconoscimento alla connessione storica del popolo ebreo con la Palestina e alle basi per ricostituire la loro nazione in quel paese".
L'obiettivo primario del Mandato era quello di provvedere una patria nazionale al popolo ebraico, incluso il popolo ebraico disperso in tutto il mondo, nella loro patria ancestrale. Al popolo arabo, che già esercitava la propria sovranità in un certo numero di stati, veniva garantita la protezione dei diritti civili e religiosi in forza del Mandato fino a quando desiderassero restare, anche dopo la formazione dello Stato di Israele nel 1948.


Diritti concessi al popolo ebraico nel Mandato per la Palestina

Inoltre, la Cisgiordania venne aggiunta nel frattempo ai territori sotto sovranità araba, sottratta dai Britannici all'esatto territorio mandatario in questione, prima della firma del Mandato stesso nel 1922 (v. di seguito).
Quando il Consiglio della Società delle Nazioni approvò il Mandato per la Palestina nel luglio del 1922, esso divenne vincolante per tutti i 51 membri della Società. Questo atto della Società consentì il realizzarsi del sogno a lungo accarezzato della restaurazione del popolo ebraico nella loro antica terra e convalidò l'esistenza di fatti ed eventi storici che collegano il popolo ebraico alla Palestina.
Per il Consiglio Supremo delle Principali Potenze Alleate e per il Consiglio della Società delle Nazioni, questi fatti storici furono considerati come accettati e stabiliti. Nelle parole di Neville Barbour: "Nel 1922, la Dichiarazione Balfour fu sancita a livello internazionale attraverso l'istituzione del Mandato per la Palestina".
I diritti concessi al popolo ebraico nel Mandato per la Palestina dovevano avere efficacia in tutta la Palestina. Da ciò consegue che i diritti legali dei richiedenti sovranità sulla Città vecchia di Gerusalemme derivano analogamente dalle decisioni del Consiglio Supremo delle Principali Potenze Alleate a Sanremo e dai termini del Mandato per la Palestina approvato dal Consiglio della Società delle Nazioni.
Nel marzo del 1921, al Cairo, la Gran Bretagna decise di ripartire il territorio mandatario della Palestina per ragioni di politica internazionale proprie. L'Articolo 25 del Mandato conferiva alla Potenza Mandataria il permesso di posticipare o non applicare la maggior parte delle clausole del Mandato nell'area di terra ad est del fiume Giordano ("Cisgiordania").
La Gran Bretagna, in quanto Potenza Mandataria, esercitò tale diritto.
Per il professor Yehuda Zvi Blum, ex ambasciatore delle Nazioni Unite, i diritti conferiti al popolo arabo della Palestina in relazione al principio dell'autodeterminazione vennero garantiti come conseguenza di tale iniziale partizione della Palestina approvata dal Consiglio della Società delle Nazioni nel 1922. Secondo il professor Blum: "Gli Arabi palestinesi godono da lungo tempo dell'autodeterminazione nel proprio stato, lo Stato arabo palestinese della Giordania". (Vale la pena sottolineare che, in una lettera scritta probabilmente il 17 gennaio 1921 al segretario privato di Churchill, il Col. T. E. Lawrence ("d'Arabia") segnalava che, in cambio della sovranità araba in Iraq, Cisgiordania e Siria, il figlio maggiore di Re Hussein, l'Emiro Feisal, uomo noto secondo Lawrence per la fedeltà alle proprie promesse, aveva "acconsentito ad abbandonare qualsiasi rivendicazione paterna nei confronti della Palestina".)


Il ruolo di Winston Churchill

Dopo questa partizione, Churchill, all'epoca Segretario Coloniale britannico, riaffermò immediatamente l'impegno della Gran Bretagna a conferire efficacia alle politiche della Dichiarazione Balfour in tutte le altre parti del territorio coperto dal Mandato per la Palestina a ovest del fiume Giordano. L'impegno era riferito anche all'area di Gerusalemme e della sua Città Vecchia. Nelle parole di Churchill: "È palesemente giusto che gli Ebrei, che sono sparsi in tutto il mondo, debbano avere una sede nazionale e un focolare nazionale dove alcuni di loro possano essere riuniti. E dove altro potrebbe essere se non nella terra di Palestina, con la quale sono stati intimamente e profondamente associati per oltre tremila anni?"
Quindi, in breve, le fondamenta primarie del diritto internazionale per la rivendicazione "legale" basata sui "diritti storici" o sul "titolo storico" del popolo ebraico in riferimento alla Palestina sono le decisioni di Sanremo dell'aprile 1920, il Mandato per la Palestina del luglio 1922, approvato dal Consiglio della Società delle Nazioni e firmato dalle stesse Principali Forze Alleate e divenuto quindi un trattato internazionale vincolante per tutti gli Stati Membri, e lo stesso Patto della Società delle Nazioni (Art. 22).


Dal 1920 al 1948

Dopo la Dichiarazione di Sanremo del 1920 successivamente trascorsero molti anni dall'adozione del Mandato nel 1922 alla creazione dello Stato di Israele nel 1948. Un evento che accelerò la creazione dello Stato di Israele fu il voto dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1947 per la partizione della Palestina (Risoluzione 181 (II)), raccomandando l'istituzione di uno Stato Ebraico e di uno Stato Arabo in quel territorio. Sebbene le risoluzioni dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite abbiano una valenza pari esclusivamente a raccomandazioni e non siano dunque legalmente vincolanti,
gli Ebrei accettarono il piano di partizione, mentre gli Arabi lo rigettarono.
Il Regno Unito di Gran Bretagna rinuncio' al suo ruolo di Mandatario e si ritiro' dal territorio il 14 maggio 1948.


La Dichiarazione dello Stato d'Israele

Quello stesso giorno, con effetto dalla mezzanotte, gli Ebrei dichiararono lo Stato di Israele. Il giorno seguente, gli eserciti di cinque nazioni arabe circostanti attaccarono immediatamente il nuovo Stato Ebraico (Guerra d'Indipendenza d'Israele). GliArabi vennero inaspettatamente sconfitti.
La Giordania, tuttavia, annesse illegalmente la Giudea e la Samaria. Israele riacquisto' il controllo del suo territorio di mandato nel corso di una guerra di auto-difesa, la Guerra dei Sei Giorni, nel 1967. Nonostante tali eventi abbiano influenzato la rilevanza del Mandato, in modo particolare avendo portato alla realizzazione del suo scopo primario, la creazione di uno Stato Ebraico, alcuni aspetti fondamentali del Mandato rimangono validi e legalmente vincolanti, e sono estremamente rilevanti per la determinazione delle "questioni chiave" che devono essere negoziate fra le due parti circa lo "status permanente" (o "status finale") di Gerusalemme e della "Cisgiordania/West Bank".
Al fine di ottenere la giusta prospettiva nel considerare l'ambito legale internazionale in cui si inserisce la questione di uno Stato palestinese dichiarato tale a livello unilaterale, con la parte orientale di Gerusalemme come capitale, potremmo aver bisogno di andare oltre la legge, per se, al fine di tenere conto dell'impatto dell'opinione pubblica sulla formulazione delle consuetudini legali e delle leggi internazionali codificate. Di conseguenza, bisognerebbe attrarre l'attenzione al livello in cui le risoluzioni eque ai "problemi principali" dell'odierno conflitto israeliano/arabo palestinese possano essere esacerbate da iperboli linguistiche, distorsioni dei fatti o manovre puramente politiche e calcolata retorica. Parte della retorica risente dell'esigenza critica di essere esposta alla luce della terminologia e precisione legale, altrimenti può facilmente portare a una crassa distorsione della verità, che può dare luogo persino a risposte legali internazionali sconsiderate.
Prendiamo per esempio l'identità "palestinese". Al momento della decisione di Sanremo e del risultante Mandato per la Palestina, il territorio allora noto come "Palestina" venne designato espressamente per la "ricostituzione" del "focolare nazionale" del popolo ebraico soltanto. Mentre erano state intraprese debite misure per proteggere I diritti degli Arabi e degli altri abitanti, solo gli Ebrei erano un popolo rimasto senza una patria. Questo era in realtà lo scopo preciso del Mandato per la Palestina e il suo predecessore, la Dichiarazione Balfour.


L'equivoco Palestina

Al momento del Mandato, sarebbe stato più preciso fare riferimento agli "Ebrei palestinesi" e agli "Arabi palestinesi" (insieme ad altri abitanti non ebrei), ma a motivo della creazione dello Stato di Israele, gli Ebrei palestinesi mantennero il loro antico nome di "Israeliani" mentre i non ebrei (principalmente, ma non tutti, arabi) si appropriarono del nome di "Palestinesi", con il risultato di essere spesso erroneamente considerati come i legittimi abitanti del territorio. In realtà, la terra denominata "Palestina" copre un territorio denominato dagli Ebrei "Terra Santa" molto prima che il nome "Palestina" fosse utilizzato per la prima volta da Greci e Romani. La verità è che il territorio un tempo noto come "Palestina" non è mai stato, né dal momento in cui tale nome venne utilizzato né prima, una nazione araba, ovvero non è mai stato designato come nazione araba. Questa nomenclatura, tuttavia, apporta un forte impatto psicologico con l'inferenza che i precedenti abitanti arabi della Palestina sarebbero i veri "Palestinesi"e che essi soltanto fanno parte della "Palestina".
Per quanto riguarda la questione dei rifugiati, la definizione legale di "rifugiato" è la seguente: "una persona che fugge o viene espulsa da una nazione, soprattutto a causa di persecuzione e cerca riparo in un'altra nazione" (Black's Law Dictionary). L'attuale difficile situazione di coloro che vivono nei campi dei rifugiati è davvero deplorevole ed evoca giustamente la compassione del mondo, ma la maggior parte dei Palestinesi identificati come "rifugiati" sono distanti più di una generazione dagli eventi che causarono la fuga della generazione precedente.
A vaste aree di terra araba fu concessa l'indipendenza generazioni fa e poterono facilmente accogliere tutti questi sfortunati "rifugiati" che sono diventati uno spettacolo per sei decenni invece di integrarsi come membri produttivi della società fra la loro gente. In aggiunta agli altri territori del Mandato di Sanremo che ottennero la condizione di Stato prima di Israele, e avrebbero potuto facilmente assorbire i loro fratelli arabi, la Cisgiordania fu ripartita appositamente per gli Arabi palestinesi all'interno del territorio originariamente destinato al focolare nazionale ebraico. Ciò fornì già un 'nuovo Stato' legittimo agli Arabi entro il territorio della "Palestina".
Il diritto internazionale non ha mai dovuto cimentarsi con la questione dell'«ereditarietà» dello status di rifugiato, e tale situazione è divenuta unica nella storia umana.
Per quanto riguarda le "linee del 1967", come punto di riferimento per un nuovo potenziale Stato palestinese, esiste una menzione costante di ritiro entro i "confini del 1967". Prima di tutto questa terminologia è legalmente scorretta. Il termine "confini" viene generalmente utilizzato nella giurisprudenza internazionale per indicare dei "confini nazionali", cosa che le "linee" del 1967 sicuramente non sono.


Confini e linee di demarcazione

La giurisprudenza internazionale definisce come "confine" "una delimitazione fra una nazione (o una suddivisione politica [di tale nazione]) e un'altra" (Black's Law Dictionary). Tali confini nazionali non sono mai stati stabiliti per il rinato Stato di Israele.
Le "linee" del 1967 sono linee puramente militari di non attraversamento ("linee di demarcazione di armistizio"), derivanti dalla Guerra di Indipendenza di Israele del 1948. E' stato espressamente ribadito nel corso dei numerosi accordi di armistizio del 1949 tra Israeliani e Palestinesi, che queste "linee" né rappresentano confini nazionali, né pregiudicano la futura negoziazione bilaterale degli stessi.
Queste linee di armistizio del 1949 restarono valide fino allo scoppio della Guerra dei Sei Giorni nel 1967. Collegarle alla guerra del 1967, in cui il territorio perduto venne recuperato dalle forze di difesa israeliane, sotto attacco, chiamandole i "confini del 1967" invece che le linee di armistizio del 1949, favorisce l'errata nozione che si tratti di "confini" illeciti, compromettendo profondamente la questione e i suoi esiti.
Eugene Rostow, Sottosegretario di Stato statunitense per gli Affari Politici nel 1967, nonché uno degli autori della Risoluzione 242 del Consiglio Nazionale per la Sicurezza delle Nazioni Unite del 1967 relativa a confini "sicuri e protetti", affermò nel 1990 che tale Risoluzione e la successiva Risoluzione 338 del Consiglio di Sicurezza " . . . si basano su due principi: Israele può gestire il territorio fino a quando i suoi vicini arabi non faranno la pace e quando la pace sarà fatta Israele dovrà ritirarsi entro 'confini sicuri e riconosciuti', che non devono necessariamente essere gli stessi delle Linee di demarcazione dell'armistizio del 1949". In altri termini, le linee del 1967 non sono affatto "confini", e questo termine non dev'essere utilizzato per creare e perpetuare l'impressione che Israele abbia illegalmente trasgredito i confini di un altro Stato, quando non è affatto così.
Analogamente, per quanto riguarda i territori disputati, l'uso diffuso dei termini "territori occupati" invece che "territori disputati" (cosa che corrisponde alla realtà) ha un enorme impatto psicologico che può dare luogo a ramificazioni reali e persino legali.
Inoltre, questo linguaggio e ciò che tende a connotare ("occupazione belligerante")
ignorano totalmente il linguaggio del trattato internazionale, che utilizza il termine "ricostituito", così come contenuto nel Mandato per la Palestina.


La questione degli "insediamenti"

l territorio ricostituito preclude un'"occupazione belligerante", anche se i confini nazionali permanenti devono ancora essere negoziati.
Uno Stato non può, per definizione, essere una "potenza di occupazione belligerante" in un territorio che viene "ricostituito" nel proprio nome, secondo le norme di uno strumento legalmente vincolante di diritto internazionale. L'"occupazione si verifica quando uno Stato belligerante invade il territorio di un altro Stato con l'intenzione di mantenere tale territorio almeno temporaneamente" (West's Encyclopedia of American Law).
Il territorio reclamato da Israele nel 1967 non è mai stato legittimamente "il territorio di un altro Stato", né Israele lo ha ottenuto con una guerra di aggressione.
Esso in realtà era un territorio specificatamente designato per un focolare nazionale ebraico, secondo il Mandato per la Palestina legalmente vincolante del 1922.
Uno stretto corollario a tutto ciò è rappresentato dalla questione degli insediamenti. La delicatezza di tale questione è esacerbata dal fatto che la legalità/illegalità di tali insediamenti si basa su fattori che potrebbero non seguire norme prescritte di diritto internazionale, ma che sono di fatto complicati dalla natura unica del caso di Israele.
Per esempio, spesso si afferma che tali insediamenti violano l'Articolo 49 della Convenzione di Ginevra (IV), ma l'inclusione di tale articolo nella Convenzione aveva uno scopo ben diverso da quello di governare circostanze come quelle esistenti nell'odierna Israele.
L'intento degli autori era quello di proteggere i civili vulnerabili in tempi di conflitti armati, creando uno strumento legale internazionale che avrebbe dichiarato illegittima qualsiasi deportazione coatta come quella sofferta da oltre quaranta milioni di tedeschi, sovietici, polacchi, ucraini, ungheresi e altri, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Nel caso di Israele, in base alla legislazione internazionale, così come rappresentata dal Mandato per la Palestina, agli Ebrei non solo veniva permesso di insediarsi in ogni parte della Palestina, erano addirittura incoraggiati a farlo, non venivano però deportati o trasferiti con la forza dal governo. Di conseguenza, chiamare "illegali" gli insediamenti israeliani di "Gerusalemme est", della Giudea e della Samaria non è un'applicazione appropriata della Quarta Convenzione di Ginevra.


Gerusalemme

La questione di Gerusalemme è forse la più volatile di tutte.
A motivo della sacralità di questa Città per molti, è diventato evidente che le posizioni di Israele e Palestinesi riguardo alla Città Vecchia sono a tutti gli effetti irriconciliabili. La prova di questo fatto è che essa non fu nominata nel Framework for Peace (Quadro per la Pace) in Medioriente, adottato negli Accordi di Camp David del 1978 fra Israele ed Egitto.
In quest'ultimo caso, Gerusalemme era in realtà inclusa nell'ordine del giorno ma fu lasciata fuori dai veri e propri accordi a causa dell'incapacità delle due parti di risolvere le loro fondamentali discrepanze su questa seria questione. Il fallimento del Summit di Camp David del luglio 2000 sottolineò ancora una volta il significato della questione di Gerusalemme e della Città Vecchia.
Arrivando al ruolo delle Nazioni Unite nel corrente dibattito, bisogna ricordare che, secondo la Carta delle Nazioni Unite, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite non ha il potere di creare decisioni legalmente vincolanti. Le Risoluzioni dell'Assemblea Generale possono solo raccomandare, ma non hanno forza vincolante.
Pertanto, anche se si dovesse arrivare ad una Risoluzione che "riconoscesse" gli "Arabi palestinesi" quale entità politica/Stato, ciò non costituirebbe, di per sé, la creazione di uno Stato di Palestina ai sensi della legislazione internazionale, non più di quanto la Risoluzione 181 (II) (il Piano di Partizione delle Nazioni Unite) del 1947 abbia creato lo Stato di Israele.
Inoltre, entrambe le parti si sono impegnate a seguire la via dei negoziati per arrivare ad uno "status permanente". La leadership dell'OLP promise nel 1993 di affidare ai negoziati la risoluzione di praticamente tutte le questioni importanti relative allo "status permanente".
A norma dell'Accordo ad interim (Oslo II) del 1995, le parti si impegnarono a non agire unilateralmente per modificare lo status dei territori prima di aver raggiunto risultati attraverso i negoziati sullo status permanente. Venne chiaramente statuito e concordato che: "… nessuna delle parti avrebbe iniziato o intrapreso alcun passo che modificasse lo status della Cisgiordania e della striscia di Gaza prima dei risultati dei negoziati sullo status permanente".
Una dichiarazione unilaterale dello Stato Palestinese sarebbe pertanto in violazione dell'impegno preso ed espresso in uno strumento legale internazionale, come anche in dichiarazioni pubbliche e documenti ufficiali e pubblicati.


Conclusione

Per riassumere, il conflitto non è un conflitto tradizionale sui confini.
Questo non è neanche il vero problema, come dimostra il fatto che i confini rimangono fino a questo momento indeterminati. Si tratta di un conflitto sui diritti storici e sul bisogno, riconosciuto a livello internazionale, di un 'popolo' unificato ad ottenere un proprio posto (e spazio territoriale) dove poter tornare a 'casa' dopo duemila anni di 'apolidia' e separazione dalla Terra dei loro padri, l'unico posto che definiscono "santo" e l'unica Terra che abbiano mai chiamato "patria".

(Tratto da "Foundations of the International Legal Rights of the Jewish People and the State of Israel") di Cynthia D. Wallace)
 
 

alex

Nirenstein: "Palazzo Chigi ha scavalcato indebitamente tutto il Parlamento e ha cambiato l'intera politica estera italiana" 

Dichiarazione dell’On. Fiamma Nirenstein, Vice Presidente della Commissione Esteri:

“Non si è mai visto un rovesciamento politico come quello cui ci ha costretto ad assistere Palazzo Chigi, del tutto inaspettatamente, nelle ultime ore, lanciando il fulmine a ciel sereno del riconoscimento unilaterale della Palestina. E' davvero una brutta sorpresa, un incomprensibile rovesciamento di linea politica, per un Parlamento che nel corso di questi anni ha costruito con Israele un rapporto speciale, in cui sono stati respinti con voto d'aula unitario il truffaldino Rapporto Goldstone, è stato bocciato il cosiddetto Durban 2, sono stati tessuti rapporti speciali nel campo della scienza, della cultura, dei rapporti commerciali.

L'Italia, uno dei migliori amici di Israele per scelta democratica, adesso si ritrova, senza che il Parlamento sia mai stato consultato, insieme allo schieramento automatico dei Paesi Islamici e insieme all'Europa nella peggiore delle sue accezioni, ideologica e impaurita, incerta e succube, sensibile all'odore del petrolio e alla paura dell'Islam, non con l'Europa più affidabile ma con quella da sempre antisraeliana e filoaraba, di cui Francia e Spagna sono i capofila, sempre pronta al giudizio più aspro verso il diritto all'autodifesa di Israele, indifferente alla sua sicurezza sempre così terribilmente a rischio, incurante di fronte alla sua magnifica vibrante democrazia. La democrazia per l'Europa è sempre stato un tema debole, non così per gli USA che non a caso sostengono Israele.

Non è affatto vero, come dice Palazzo Chigi che questa risoluzione serve ad affermare il principio di due Stati per due popoli, al contrario essa cancella tutto il lavoro di costruzione di un processo di pace bilaterale. Non nascerà la Palestina da questa risoluzione, ma solo la conferma che i Palestinesi per ottenere ciò che vogliono non hanno bisogno di cedere alcunché né sul piano ideologico né su quello dello scambio territoriale, che non hanno il dovere di sedersi di fronte al loro interlocutore, che hanno il diritto di non riconoscerlo persino come un interlocutore. Per non parlare degli accordi internazionali, a partire da quello di Oslo: questo voto li cancella tutti, e crea una situazione di caos in cui fiorirà Hamas. Al contrario di quello che si afferma, non è la parte moderata che viene qui aiutata. Palazzo Chigi aiuta di fatto un punto di vista estremista perché isolazionista, accusatore, palesemente carico di disprezzo e d'odio verso Israele. E l'ha fatto contro il parere espresso dal Parlamento in questi quattro anni”.

Roma, 29 novembre 2012

Inviato da alex il

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